giovedì 24 febbraio 2011
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Caro direttore,sono un vecchio medico che ha trascorso la vita in reparti di medicina ospedaliera. Ancora adesso, pensionato, vado quasi ogni giorno in un reparto oncologico per parlare con chi ha in atto chemioterapie. Pochi giorni fa, come successo altre volte, una paziente mi ha esplicitato la sua gratitudine (le scendevano copiose le lacrime) per avermi potuto confidare tutti i suoi problemi, non affrontabili in famiglia per timore di crearne ad altri. Mi sono ricordato di un recente lavoro (Ann.Int.Med.2010; 153:76) dove un’inchiesta sui cosiddetti "testamenti biologici" rivelava che gli sbandati senza casa (i cosiddetti homeless) erano disponibili alle cure, in caso di coma, in percentuale maggiore rispetto alla popolazione generale. Nel mio caso e in quello degli homeless, risulta evidente lo stato di grave debolezza con una forte ansietà per la ricerca di aiuto e la disponibilità ad accondiscendere alle opzioni offerte. Francesco D’Agostino domenica scorsa ha messo in evidenza il rischio insito nel pretendere che le persone in queste situazioni autodeterminino il trattamento medico: è facile comprendere che ciò li esporrebbe all’eutanasia. Mi auguro che il disegno di legge sul «fine vita» vada in porto tenendo conto della particolare labilità di questi pazienti, che tra l’altro possono cambiare idea rispetto a decisioni precedentemente assunte. I pochi casi di disaccordo con l’operato dei medici non mi sono apparsi spontanei, ma ideologicamente creati.

F. P.

Lei, caro professore, torna con grande efficacia sui punti nodali della riflessione e del dibattito provocati dall’offensiva dei fautori dell’eutanasia. Avrei ben poco da aggiungere alle sue parole, ma una postilla in forma di domande – certo non rivolte a lei, ma a ben altri – mi pare essenziale. Possibile che così pochi tra i cosiddetti progressisti, tra gli autoproclamati difensori dei più deboli e svantaggiati, tra i nostri (ad altro proposito curiosissimi) colleghi giornalisti si pongano seriamente la domanda sul perché nelle sempre più vecchie società dell’Occidente sia stato imposto con questa intensità, e avvolto nello sgargiante mantello libertario del diritto all’autodeterminazione, il tema della «morte» a desiderio e a comando con il sigillo della legge? Possibile che nessuno noti che questo avviene con testa e sguardo lontani dalla realtà quotidiana della nostra gente? Possibile che continui questa sovrana indifferenza per la vera e grande attesa delle persone che si misurano con la malattia e la disabilità, che non chiedono affatto «libertà di morire», ma reclamano capacità di «cura» degne, civili, umane e pienamente umanizzanti? Gentile e caro professor P. – accetto di buon grado di non chiamarla per nome e cognome, rispettando i suoi pazienti – lei parla con esperienza e saggezza e non fa propaganda. E questo, oggi, è un impagabile merito.
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