venerdì 11 luglio 2014
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Non è sempre facile mettere in rete l’amministrazione pubblica, le organizzazioni del Terzo settore, con le migliori competenze locali per la fornitura di un bene o servizio pubblico e i capitali necessari per finanziare l’operazione attingendo alla disponibilità dei cittadini a pagare per il valore sociale prodotto. Uno strumento rivoluzionario, in via di sperimentazione, che cerca di realizzare questo obiettivo è l’obbligazione ad impatto sociale (Social Impact Bond, Sib).Il debutto di questo strumento risale al 18 marzo 2010, quando il Segretario di Stato per la Giustizia del Regno Unito, Jack Straw, annunciava il lancio del primo "bond" a impatto sociale per finanziare un programma di riabilitazione riguardante 3.000 prigionieri del carcere di Peterborough. I risparmi raccolti sul mercato in seguito al collocamento dell’obbligazione servirono a finanziare l’operato dell’organizzazione di Terzo settore scelta per erogare il servizio. Nel caso in questione si trattava di un ente impegnato nel reinserimento nella società di ex detenuti. L’obbligazione strutturata, a tasso variabile, prevedeva che, in caso di realizzazione di un impatto positivo e significativo sul problema oggetto d’intervento da parte dell’organizzazione stessa (ovvero una riduzione di almeno il 7,5% della recidiva carceraria) lo Stato erogasse ai sottoscrittori una parte dei guadagni dovuti alle minori spese sostenute per il mantenimento dei detenuti. Il rendimento di questo tipo di obbligazione può dunque aumentare significativamente in caso di impatto di successo dell’intervento sociale. Sperimentazioni analoghe sono previste negli Stati Uniti a New York e nello stato del Massachussets.
Il Social impact bond è sicuramente meglio di quei meccanismi perversi che ad esempio spingono i proprietari di carceri private negli Stati Uniti a stimolare attraverso l’immigrazione clandestina la "produzione" di futuri detenuti per intascare la retta pubblica. Si tratta di riflettere però approfonditamente sui potenziali benefici e sugli ostacoli che impediscono, al momento, il passaggio dei Social impact bond dalla fase sperimentale a quella di utilizzo maturo. Le potenzialità dello strumento sono notevoli. Esso combina il principio di sussidiarietà e valorizza le competenze del Terzo settore, agevolandone l’accesso ai mercati finanziari, attingendo non solo ai risparmiatori etici ma anche alla massa gigantesca di attori (come i fondi pensione) che possono investire parte del loro portafoglio in un’attività che può conferire rendimenti non trascurabili in caso di successo. Fondi di garanzia variamente costituiti possono solitamente intervenire per attenuare il rischio dell’operazione. L’iniziativa rappresenta inoltre uno stimolo formidabile all’aumento e alla verifica della qualità degli interventi e offre ai finanziatori socialmente responsabili e alla finanza etica un canale ulteriore di investimento oltre a quello tradizionale dei fondi etici.Nonostante queste potenzialità, le insidie e i rischi sono parimenti notevoli. Le condizioni necessarie perché il meccanismo possa funzionare non sono affatto poche. In primo luogo, i costi per l’amministrazione pubblica della malattia sociale che si vuole curare devono essere chiaramente misurabili (il caso della recidiva carceraria è da questo punto di vista una delle tipologie migliori). L’impatto dell’azione dell’organizzazione di Terzo settore chiamata a svolgere il servizio deve essere parimenti calcolabile e, se lo si vuole misurare seriamente, è necessario appaltare ad organizzazioni indipendenti la realizzazione di scrupolosi studi che si fondano sul metodo degli esperimenti randomizzati: ovvero, sull’attribuzione casuale dei potenziali beneficiari ad un campione di trattamento o, alternativamente, ad un campione di controllo. In questo modo diventa possibile valutare con precisione l’impatto dell’intervento. Quest’ultimo sarà pari alla differenza di performance tra gli individui casualmente attribuiti al campione di trattamento sottoposto alla sperimentazione dell’iniziativa sociale, con la differenza di performance degli individui attribuiti casualmente al campione di controllo non soggetto a sperimentazione. La procedura degli esperimenti randomizzati, oggi così in voga per la qualità della metodologia negli studi economici empirici, è essa stessa soggetta a critiche sotto il profilo dell’eticità. In casi drammatici come quelli, ad esempio, di progetti di lotta alla malnutrizione è lecito tenere metà dei potenziali beneficiari fuori dal trattamento che potrebbe salvarli? In condizioni di scarsità di risorse disponibili per l’intervento, una scelta va necessariamente fatta, ma non è detto che debba essere così tranchant come l’esperimento randomizzato richiede.
Un altro difetto tipico che si rischia di importare proprio dalla pratica degli esperimenti randomizzati è quello di rendere progressivamente meno appetibili tutti gli interventi nei quali è difficile effettuare misurazioni accurate della performance. Un po’ come nella famosa barzelletta dell’economista che, smarrita la chiave in un lungo viale buio, la cerca nel solo punto in cui c’è un lampione acceso. A chi gli chiede il perché della scelta la risposta è semplicemente che quello è l’unico punto illuminato. Se il Social impact bond diventa di moda, in sostanza, rischiamo di indirizzare tutte le risorse (o comunque una quantità sproporzionata di esse) verso il recupero degli ex detenuti a scapito di altri obiettivi meno facilmente misurabili e potenzialmente altrettanto meritevoli? E quanto più difficile sarebbe misurare, anche nell’ambito prescelto, il miglioramento di benessere complessivo dei beneficiari al di là del rischio di recidiva? I costi di transazione dell’intera operazione non sono inoltre trascurabili, almeno in questa prima fase sperimentale perché includono la definizione delle regole dell’intera operazione e il fondo necessario perché un ente indipendente effettui la verifica d’impatto. In questa prima fase di sperimentazione si calcola che essi possono arrivare fino a una somma pari al 10% dell’intera operazione. Inoltre, favorire l’accesso degli enormi capitali dei mercati finanziari al finanziamento di progetti sociali è una buona cosa, ma fino a che punto le quote investite devono essere liquide, ovvero rivendibili sul mercato secondario? Meno liquidità è sicuramente un handicap che chi potrebbe essere chiamato a investire nel progetto potrebbe mettere in conto ai finanziati, ma più liquidità rischia di importare tutte le problematiche ben note dei mercati finanziari come l’eccessiva volatilità ed esposizione ad umori transitori e dinamiche di carattere speculativo.
I Social impact bonds rischiano inoltre di distorcere la percezione da parte dei cittadini della performance complessiva in termini di responsabilità sociale ed ambientale degli attori economici. L’importanza della dimensione in operazioni del genere favorisce naturalmente grandi attori del mercato che possono, partecipando a queste iniziative, compensare una condotta largamente insufficiente dal punto di vista complessivo in termini di responsabilità sociale ed ambientale. Guardando in una prospettiva più positiva, il medesimo aspetto, i Social impact bond rappresentano una strada attraverso la quale questi grandi attori del mercato possono migliorare la loro reputazione con iniziative concrete ed efficaci.Nonostante tutte queste problematiche, è innegabile che il tema apra una prospettiva affascinante che merita di essere esplorata in modo approfondito. L’orizzonte che di questi nuovi strumenti è più in generale quello di partenariati tra amministrazioni pubbliche, organizzazioni di Terzo settore e risparmio privato, finalizzate alla realizzazione di iniziative d’impatto pubblico di valore per la società. Ed è in questa prospettiva, estendibile a molte altre tipologie d’intervento, che il meccanismo si potrebbe estendere ad altre tipologie una volta definito il fondamentale passo preliminare del valore per la società e per l’amministrazione pubblica dell’attività che si vuole realizzare. È il caso di tentare dunque una sperimentazione anche nel nostro Paese, magari proprio partendo dall’esempio della reintegrazione sociale degli ex detenuti per ridurre il sovraffollamento delle carceri?
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