martedì 22 settembre 2015
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Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire riguardo alle modifiche che si prospettano alla liberalizzazione delle aperture commerciali. "Tanto rumore", perché sul fronte della distribuzione organizzata si avverte una crescente preoccupazione, sfociata in allarmi e pensosi dibattiti sul grado di modernità del Paese. "Per nulla" – purtroppo – perché il testo di legge, ora in discussione al Senato dopo un primo sì alla Camera, si è ridotto veramente a poca cosa. L’ultima versione prevede infatti la chiusura obbligatoria degli esercizi in 12 festività nazionali, potendo però derogare per un massimo di 6. Dunque, di fatto, se anche venisse approvata la nuova norma, bollata addirittura come "controriforma", negozi e centri commerciali potrebbero restare aperti 359 giorni su 365, anzi 360 negli anni bisestili.Rispetto al testo in votazione al Parlamento non varrebbe perciò neppure la pena di versare tanto inchiostro. Se non fosse che la questione è davvero fondamentale e va ben oltre il tema degli orari per investire quello, ben più importante, di quale modello di società ci interessa perseguire e favorire. La regolazione delle aperture domenicali e festive degli esercizi commerciali, infatti, è utile per molte buone ragioni: difendere i piccoli negozi a conduzione familiare da una concorrenza che non possono fronteggiare e limitare i disagi dei lavoratori, costretti a complesse turnazioni. Soprattutto, però, i limiti alla liberalizzazione assoluta sono necessari per salvaguardare una più alta libertà, insieme individuale e collettiva, ad avere un giorno di riposo e a poterne usufruire assieme agli altri. Un tempo di festa che, per essere veramente tale, ha bisogno di venire speso con gli altri, in maniera sincrona. Le festività e le domeniche hanno questa fondamentale funzione: il riposo certo, il tempo per sé e – se credenti – per fare spazio a Dio, per godere la bellezza della natura e dell’arte umana. Ma, soprattutto, un’occasione data per ritrovarsi in famiglia, coltivare rapporti sociali, fare volontariato, costruire la comunità, in un giorno veramente libero perché libero per tutti.Conosciamo le obiezioni. La prima è che sono molti i settori nei quali si lavora la domenica e nei festivi. Vero, ma si tratta per la grandissima parte di servizi essenziali che non possono essere interrotti, quali quelli sanitari, o che garantiscono proprio il "far festa" e il ritrovarsi delle persone, come ad esempio i ristoranti. Ben diversa è la possibilità per 365 giorni l’anno di "fare la spesa", comprare una camicia o la lettiera per il gatto. La seconda è che con le maggiori aperture si crea nuova occupazione (per ora poca...) e che gli eventuali "problemi" si possono risolvere con la contrattazione, i turni ecc. Vero, ancora una volta, a dimostrazione però che il disagio è sentito, che il lavoro festivo pesa sulle famiglie e rappresenta un problema prima che un’opportunità.Non si tratta infatti solo di consentire la pratica religiosa nei tempi dati a coloro che sono credenti, peraltro esercizio di una libertà fondamentale. O, più banalmente, di permettere a genitori e figli di stare tutti assieme, a tavola e non solo, per condividere davvero momenti di confronto, cosa ormai rara a causa dei diversi orari imposti da scuola e lavoro. Si tratta in realtà di non impoverire la società svilendone i rapporti, riducendo la libertà alla mera dimensione economicista di produzione, vendita e consumo. Quell’idea che fa dei grandi centri commerciali i moderni luoghi d’aggregazione, le nuove "piazze della festa", dove però i legami sociali e lo stare insieme sono comunque sempre subordinati al vendere e al comprare, allo scambio profittevole. L’esatto contrario della gratuità, che è il segno costitutivo della festa e di rapporti autenticamente umani. È questo tempo libero e gratuito che la liberalizzazione delle aperture sta sottraendo non solo ai dipendenti del commercio ma ai cittadini in generale, a tutti noi. La liberalizzazione, estrema se non estremista, per paradosso finisce così per diventare un "furto di libertà", che impoverisce il tessuto sociale e noi stessi. Liberi certo di comprare a qualsiasi ora, ogni giorno; ma soli e deboli perché senza un tempo condiviso. Molto di più occorre fare per "liberare" davvero, e per tanti, il tempo della festa.
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