venerdì 29 gennaio 2010
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La risposta degli Stati Uniti al terremoto di Haiti dovrebbe essere considerata motivo d’imbarazzo. Ci ha sconvolto vedere in aeroporto interi depositi di medicine inutilizzate, cibo e altri tipi di forniture circondate da centinaia di soldati statunitensi e internazionali, che se ne stavano lì senza alcun motivo». Sono parole di medici americani riportate due giorni fa dal Wall Street Journal, che vanno ad aggiungersi all’impressione da noi ricavata sul campo e confermata da altri e più illustri testimoni, tanto da poter ragionevolmente affermare a quindici giorni dal sisma che ha sconvolto Port au Prince e i villaggi limitrofi che la generosa macchina dei soccorsi sia stata purtroppo tutt’altro che eccellente.Principale imputato, come si sa, sono gli Stati Uniti, responsabili secondo molti di aver paralizzato il traffico aeroportuale senza aver saputo gestire con efficacia un programma di aiuti alla popolazione. A nostro avviso i motivi di questa carenza vanno ricercati in due fattori, uno strutturale, l’altro – assai più importante – culturale.Per comprenderlo dobbiamo ritornare con la memoria al 2005, quando l’uragano Katrina spazzò le città di New Orleans e di Biloxi seminando morte e distruzione. Un uragano il cui avvicinamento era largamente previsto, ma che non spinse la Fema (la protezione civile americana) a mobilitarsi, al punto che quattro giorni dopo l’impatto il presidente Bush dichiarava che non era stato possibile prevedere la catastrofe. Le analogie con il terremoto di oggi sono molteplici. Anche a New Orleans – come ad Haiti – giunsero aiuti massicci da ogni parte d’America, ma per lo più – proprio come ad Haiti – rimasero bloccati a centinaia di chilometri di distanza a Baton Rouge in Louisiana, mentre la zona del disastro veniva robustamente pattugliata dalla Guardia nazionale. Il responsabile della Fema Mike Brown – che aveva ricevuto l’incarico non per particolare competenza in materia ma per amicizia personale con George W.Bush – si vide costretto a dimettersi, travolto dalle critiche locali e internazionali.Alla luce di questo precedente verrebbe da dire che gli americani non abbiano imparato alcunché dallo smacco di Katrina. Ma non è così, perché qui veniamo alla seconda ragione, quella culturale. Terreno scivoloso, ce ne rendiamo conto, dove il rischio di semplificare è molto alto. Ci soccorrono tuttavia l’antropologa Margaret Mead – autrice del celeberrimo And Keep Your Powder Dry (Tieni asciutte le tue polveri), forse la più completa radiografia degli americani dopo Tocqueville – e la vasta galleria di miti popolari (da Melville a Mickey Mouse, da Flash Gordon a Superman, dalla Frontiera a Rambo) prodotti da una cultura "wasp" (bianca, anglosassone e protestante) che assegna all’individualismo e al coraggio il tratto pregnante dell’animo americano, ma a cui sono sostanzialmente estranei i moti della solidarietà come la intendiamo noi europei. Gli americani sono forse imbattibili nel rescue – il salvataggio che può mobilitare energie e risorse tecnologiche enormi per un peschereccio in difficoltà – ma fortemente deficitari, se non talvolta teatralmente incapaci, nella concezione di soccorso organizzato su vasta scala, in quanto viola inconsciamente quel retaggio secolare che poggia su un incontestato fai-da-te. Significative in questo senso – quale conferma più schietta? – le parole di Bill Clinton, pronunciate ieri a Davos: «È venuto il momento di aiutare gli haitiani a prendere in mano il loro destino».
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