mercoledì 15 gennaio 2014
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Caro direttore,
se nel mondo viene uccisa una donna ogni 8 minuti (prima che io finisca questo testo il pianeta sarà privato di quattro donne), in Italia tale delitto si compie ogni 2 giorni e mezzo e viene chiamato "femminicidio". Uno dei soliti sondaggi di fine anno (pubblicato proprio nel giorno in cui una donna è stata strangolata dal "compagno" a Gioia del Colle) ha eletto "femminicidio" parola del 2013. Si può giusto riconoscere l’efficacia della parola nel fatto che, essendo brutta, ricalca l’orrendo delitto che vuole rappresentare. Femminicidio riempie sempre più pagine di giornale e tempi radiotelevisivi: è una parola cacofonica, lunga, e in ultima analisi non necessaria. Non credo ci sia bisogno dell’Accademia della Crusca per dimostrare tale asserzione. In qualsiasi disciplina umana si dovrebbero rispettare le leggi dell’eleganza e dell’economia. Esiste già un lemma semanticamente appropriato, elegante e breve. Questo è "ginocidio", tra l’altro assonante al genocidio, di cui è parte. Ginocidio è scorrevole e per niente astruso. Non ho mai visto una donna andare dal femminologo, tutte invece prima o poi vanno dal ginecologo . L’omologo maschile di ginocidio è androcidio, parimenti preferibile al deprecabile maschicidio. Il delitto è destinato ad aumentare e ragioni graficonomiche fanno preferire gino- a femmini-. Tre lettere in meno, che moltiplicate per migliaia di articoli significheranno la vita di alberi infiniti (ma se fosse anche un solo albero, e se questo fosse proprio quello che salva la vita a una donna che sta scappando?). In definitiva, usare la parola giusta significa prevenire un albericidio, brutta parola anche questa. Non è meglio fitocidio?
La saluto molto cordialmente
Gabriele Bronzetti, Bologna
Elegante ragionamento il suo, caro dottor Bronzetti. Ricolmo di amore per la nostra bella lingua e per le sue classiche radici. E pervaso di quella soda e buona ironia che anch’io, di solito, apprezzo molto. Stavolta, però, la seguo sino a un certo punto. Anzi mi verrebbe proprio voglia di fermarmi presto, prestissimo già all’avvio della polemica che sviluppa contro il "femminicidio", parola che – scrive – «essendo brutta, ricalca l’orrendo delitto che vuole rappresentare». Perfetto. L’essenziale è tutto qui. Mi spiego: a usare i termini meglio costruiti e torniti, a volte, si corre il rischio di non farsi ben capire dalla maggioranza delle persone, e invece ci sono momenti e questioni che impongono forte e immediata chiarezza e facile comprensione. La violenza assassina nei confronti della donna, oggi, in Italia e nel mondo, è un crimine troppo diffuso e da troppi (in tutto o in parte) scusato. È un delitto feroce, nella grande maggioranza dei casi commesso contro donne che sono anche madri e che, spesso, vengono uccise proprio al cospetto dei figli. È, insomma, una piaga purulenta della nostra umanità che bisogna decidersi a vedere nella sua spietata e insopportabile verità. Se a questo serve, e a questo può effettivamente servire, parlare di "femminicidio", allora ben venga. Quella brutta parola fa pensare immediatamente a qualcosa di preciso e di tremendo, senza lasciare spazio a interpretazioni ambigue e a margini di dubbio. Di questo lessico e di questo sguardo limpido e profondo abbiamo bisogno per sconfiggere un male assurdo e tenace, che abita la vita di tanti uomini e che continua a uccidere le donne già da bambine e un’infinità di volte anche prima di nascere, solo perché donne.
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