domenica 8 gennaio 2012
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La manovra «salva­ Italia» ha riacceso il dibattito sull’entità e sulla ripartizione tra i ceti sociali di quanto sarà esigito dai cittadini, ora e negli anni a venire, per sanare il bilancio pubblico, ridare credibilità finanziaria allo Stato e rilanciare l’economia reale del Paese. Non potrebbe essere altrimenti: bisogna partire da quello che c’è e da quanto manca, da chi ha già contribuito in buona misura e da coloro che possono scucire di più senza stringere troppo la cinghia, dalle famiglie, dai lavoratori e dalle aziende che fanno maggiormente fatica a tirare innanzi e da quelli che se la cavano meglio. La realtà non s’inventa, c’è, e bisogna pesarla. Semplicemente ma tenacemente esiste, precede e condiziona i nostri progetti e ogni progetto realizzabile deve fare i conti con essa. Prima che una forma del pensiero teoretico, il realismo è un’inesorabile evidenza di tutti i giorni. Così, ogni ripresa dell’iniziativa umana – una mossa individuale, un’impresa sociale o un’opera di governo – non può che partire da quello che c’è. Senza questo sguardo robustamente realistico, ogni ulteriore considerazione sarebbe fallace. La giustizia distributiva vuole che ciascuno faccia la sua parte in modo proporzionato a quanto possiede e a ciò di cui necessita, chi mettendo a disposizione più di quello che ha sinora dato e chi rinunciando a una parte dei beni e dei servizi che potrebbe ricevere. Questo comporta, per gli uni e per gli altri, un 'sacrificio', parola che di questi tempi conquista titoli di prima pagina. Ma né l’appello a salvare l’economia e la finanza italiana né le esigenze della giustizia sociale, e neppure un solenne richiamo al senso di responsabilità dei cittadini e degli amministratori pubblici e privati, valgono la pena di un sacrificio, se non è evidente e condiviso lo scopo per cui farlo. Cioè per che cosa o, più precisamente, 'per chi' dobbiamo fare un sacrificio. Se non vi sono ragioni adeguate, la rinuncia a qualcosa di positivo, di buono, è innaturale. Si può rinunciare a un bene solo in nome di un bene più grande. Anche nel frangente dell’attuale crisi economico-finanziaria, la questione decisiva è, ancora una volta, quella antropologica ed etica. La grandezza dello scopo di un’azione non può essere calcolata dalla ragione economica, né da quella politica, e neppure misurata dai sondaggi d’opinione (nel corso della storia, quale sacrificio dei cittadini ha mai goduto di popolarità incontestata?). Il bene – sia personale che comune – diviene incisivamente evidente solo attraverso l’esperienza che ciascuno di noi ne può fare, per quanto carica di limiti ed errori essa sia. Che nessuno soggetto individuale o collettivo possa trovare da solo il compimento del desiderio di felicità, di bene e di bello che alberga da sempre nel cuore umano è evidenza quotidiana del bambino nei confronti dei genitori, dell’uomo e della donna che si amano, di chi cerca e offre lavoro, dell’abitare in un condominio e in una città, di un popolo in mezzo ad altri popoli, di una nazione nel mondo. È, questa, una buona ragione (antropologica, cioè 'laica') per aderire al programma di sacrifici economici che la realtà della crisi suggerisce. Con un po’ di approssimazione, potremmo riassumerla così: nessuno può sperare di cavarsela da solo. Il bene comune è anche il mio bene. Ma vi è un senso religioso del termine sacrificio che dischiude un orizzonte di significato e una direzione della vita di più ampio respiro. Secondo l’etimologia latina (sacrum facere), il sacrificio implica che chi offre qualcosa lo fa riconoscendo che tutto gli è stato dato da un Altro, che la sua vita e i suoi beni sono 'sacri', appartengono cioè a Dio. Ci si può privare di un bene (se necessario, anche versando «lacrime e sangue») solo perché si è ricevuto ogni bene e perché ciò che abbiamo serve uno scopo più grande di noi, abbraccia il disegno buono di Dio sull’umanità intera e la sua storia. Dentro all’amicizia di Dio ci possiamo stringere in una solidarietà umana capace anche di rinunce salutari per tutti. Questa 'amicizia civica' è una virtù che a lungo i credenti hanno coltivato e che non farà mancare, anche in questi difficili frangenti, il loro contributo alla ripresa della vita del nostro Paese.
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