La nostra accoglienza per chi verrà lasciato in strada
venerdì 14 dicembre 2018

Leggere i dati prodotti da Nando Pagnoncelli riguardanti i vissuti e la qualità delle relazioni umane descritte da circa mille milanesi intervistati dal suo Istituto di analisi, ha rappresentato una brutta sorpresa. Si tratta di milanesi ultra diciottenni i quali, a fronte della affermazione «non si è mai troppo prudenti nel trattare con la gente», per l’85% si sono detti d’accordo, mentre l’81% ha affermato di concordare con l’affermazione che «ad aver fiducia, gli altri approfitterebbero della mia buona fede». Se possibile, però, i dati Istat sui vissuti e sulle relazioni segnalano un atteggiamento anche peggiore, principalmente verso gli stranieri, ma più in generale verso tutti, anche verso i concittadini italiani fuori dalla propria 'famiglia'. Si ripete ormai spesso, l’ha appena fatto e spiegato il Censis, che stiamo vivendo una cultura della paura e del rancore. Certamente, ma stiamo vivendo anche una grave crisi religiosa.

Non è superfluo ricordare che per i cristiani il Grande Comandamento lega l’amore per Dio all’amore per il prossimo, amore che vale anche verso il nemico. Il 'rifiuto', dunque, non è su un dogma religioso o sulla gerarchia cattolica, ma sul Grande Comandamento. Un atteggiamento radicato sino al punto che si può mostrare pubblicamente il libro del Vangelo oppure mostrare la propria assiduità alla Messa proprio mentre si decide il rifiuto e la esclusione dei più poveri. Perché anche quando si parla di stranieri pericolosi e 'invadenti' ci si riferisce ai poveri, mica ai cittadini del Qatar, della Cina o ai ragazzi dalla pelle nera che giocano a pallone con stipendi da favola. In un recente intervento il cardinal Gianfranco Ravasi ha sottolineato che bisognerebbe «gridare le Beatitudini». Io proporrei un luogo o, meglio, un modo per «gridare le beatitudini»: si chiama accoglienza diffusa in tutte le parrocchie della diocesi di Milano e di tutta Italia. Le migliaia di immigrati messi velocemente in strada nonostante il riconoscimento del diritto alla «protezione umanitaria » sono famiglie, uomini e donne che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, vengono messi fuori dai centri dove erano ospitati senza nessuna preoccupazione sul loro futuro alloggio che, quasi sempre, non c’è proprio. Semplicemente fuori: uomini, donne incinte, bambini, fuori da un rifugio e fuori dalle pagine del Vangelo. È giusto esprimere il nostro dissenso e denunciare le conseguenze del cosiddetto 'decreto sicurezza', è bene scrivere articoli e fare dichiarazioni, ma come cristiani cattolici, di fronte alla disperazione di migliaia di nostre sorelle e fratelli, il primissimo discorso, quello sostanziale, si chiama accoglienza, si chiama: 'li porto in casa mia'. Non credo che ci manchino i locali, i volontari o le famiglie che nella propria casa possano ospitare. In prima fila a lanciare questo impegno per la fraternità accogliente ci sono già alcuni dei nostri vescovi e preti, e molti altri ci saranno perché, onestamente, è il minimo che come cristiani dobbiamo e possiamo fare. Questo, secondo me e spero molti altri, sarà il nostro modo concreto e credibile per «gridare le Beatitudini», il nostro discorso civile e politico e che ha il semplice nome di «testimonianza cristiana».

*Sacerdote, presidente di Comunità Nuova

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