martedì 23 febbraio 2016
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I piani di Renzi per salvare l’unione monetaria La navigazione di Matteo Renzi nei prossimi mesi non è affatto facile. La riduzione delle previsioni delle stime Ocse per il 2016 a una crescita dell’1% è una doccia gelata per i piani del governo e rende ancora più difficilmente conciliabile il sentiero della flessibilità con quello del rispetto delle regole europee. Eppure è fondamentale continuare su questa strada perché la vera posta in gioco è la sopravvivenza dell’Eurozona. Consapevole di questo Renzi ha presentato ieri in Europa un progetto vasto di rilancio che include un sussidio europeo di disoccupazione, assicurazione europea dei depositi bancari ed eurobond, affinché l’Europa inizi a essere percepita come la soluzione e non come il problema. La storia è nota: il 2007 è stato un nuovo 1929, ma allora dopo le ricette insufficienti di Hoover arrivò il new deal di Roosevelt. La beffa per noi è che questa volta Roosevelt è arrivato sull’altra sponda dell’Atlantico, mentre noi abbiamo avuto soltanto il Fiscal Compact e la spending review( e, con sette anni di ritardo, il quantitative easing, cioè l’acquisto da parte della Banca centrale dei titoli del debito pubblico). La dottrina dell’austerità ha prodotto risultati paradossalmente controproducenti. Spagna e Portogallo hanno diligentemente applicato la politica dei tagli di spesa e hanno visto aumentare drammaticamente (non ridurre) il rapporto debito/Pil (che in Portogallo è raddoppiato superando il 130% e in Spagna è quasi triplicato passando dal 36,3% a quasi il 100% dal 2007 ad oggi). Quanto alla Grecia non esiste Paese che non abbia applicato più di Atene la dottrina dei tagli. Eppure potrebbe essere definito come quel Paese di cui si dice sempre, tra una calo e l’altro, che l’anno prossimo il Pil aumenterà (è ancora questa la storia che le previsioni Ue 2016-2017 ci raccontano per il prossimo biennio). L’errore di chi sostiene quelle politiche è quello di avere una visione troppo elementare del funzionamento dell’economia: riduciamo la spesa pubblica con la spending reviewe il debito scenderà. Ma ciò che conta non è il valore assoluto del debito, bensì il rapporto debito/Pil. E i tagli della spesa possono paralizzare la domanda interna, incidendo negativamente sul denominatore facendo paradossalmente aumentare e non diminuire il rapporto e con esso la sostenibilità del debito. Il problema non è tagliare la spesa in valore assoluto, ma migliorarne la qualità spostando risorse, come ha indicato anche il presidente della Bce Draghi nel discorso di Jackson Hole, da spesa a basso moltiplicatore a spesa ad alto moltiplicatore (cioè da sprechi a investimenti pubblici che hanno un effetto più che proporzionale in termini di creazione di Pil). E, con un costo del denaro così basso, investimenti pubblici con alto moltiplicatore non possono non esistere. La richiesta di flessibilità italiana e la più generale proposta di riforma sono giustificate anche da ragioni di principio visto che nell’Eurozona sono in molti a violare le regole e sono venute meno le condizioni che rendevano forse quelle regole lontanamente praticabili. La Francia ha candidamente annunciato che sotto il 3% del rapporto deficit/Pil ci scenderà solo nel 2017. La Germania continua ad avere un surplus commerciale al di sopra del consentito (6% del Pil). E le condizioni internazionali, come ha ricordato Draghi, 'cospirano' contro l’obiettivo della Bce di lottare contro la deflazione e ci portano lontano da quel 2% d’inflazione che sarebbe un sollievo per il nostro debito. Per non violare il Fiscal Compact sfruttando le flessibilità consentite basterebbe all’Italia circa un 3% come somma tra crescita del Pil e inflazione. La pur bassa crescita del Pil prevista dall’Ocse dunque basterebbe se l’inflazione fosse quella promessa dalla Bce. La polemica sulla flessibilità è in realtà parte di un problema più vasto: nella vicenda Brexit e in molte altre l’Europa è sempre sulla difensiva. L’ideale di unità tra Paesi non affascina e non scalda i cuori anche perché le regole la cui applicazione abbiamo affidato ai burocrati hanno dimostrato di non funzionare.  Quasi tutti gli indicatori (occupazione, crescita, debito, bilancia pagamenti) confermano che le asimmetrie tra Nord e Sud dell’Eurozona non si vanno affatto riducendo. La questione vera che il conflitto sulla flessibilità pone è dunque se l’Eurozona è sostenibile. Può esserlo se – prendendo sul serio le proposte che con l’appello dei 360 economisti pubblicato a fine 2014 avevamo lanciato e che ora sono state ampliate e rilanciate dal governo – arriveremo a una vera politica comune fiscale, bancaria e monetaria dove i prossimi tasselli dovrebbero necessariamente essere quelli dell’armonizzazione fiscale, della chiusura dei paradisi fiscali interni, dell’assicurazione europea dei depositi e della condivisione del debito. L’alternativa a questo sentiero è la rottura dell’equilibrio e la creazione di due aree valutarie a Nord e a Sud. Una divisione dell’Unione che potrebbero essere gli stessi tedeschi a proporre dopo aver già fatto in passato un primo tentativo con la Grecia. Tertium non datur.
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