martedì 14 febbraio 2012
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Le sentenza del tribunale di Torino a carico del magnate svizzero Schmidheiny e del barone belga De Cartier, condannati a 16 anni di reclusione in quello che è stato definito il «processo dell’amianto», assume un rilievo che va al di là del contesto nazionale e si carica di una valenza che trascende l’entità della condanna. Entità strettamente connessa – non poteva essere altrimenti – alla gravità dei reati costati il carcere ai due imputati:  disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antinfortunistiche. Di amianto non sono morti solo gli operai delle aziende dove la pericolosa sostanza veniva lavorata in assenza di adeguate protezioni benché i rischi fossero noti da tempo. Asbestosi e mesotelioma pleurico, patologie indotte dell’inalazione delle polveri del minerale, sono spesso costati la vita a chi, ignaro, viveva accanto a fabbriche che erano centrali di veleni dispersi nell’aria. La Procura di Torino aveva accertato 2.154 decessi, una ecatombe per un’Italia che a Casale Monferrato come a Bagnoli, a Rubiera come a Broni aveva le sue piccole Bophal in sedicesimo. Sicché quello che si è concluso non è stato un processo per le cosiddette morti bianche, cioè per i morti sul lavoro e di lavoro, episodi tragici di cui purtroppo le cronaca è costretta a occuparsi con allarmante frequenza. A Torino era alla sbarra un sistema imprenditoriale di caratura multinazionale cinicamente basato sulla ottimizzazione produttiva conseguita a scapito della sicurezza tanto dell’uomo come dell’ambiente. Perché è chiaro che le misure di protezione costano, che la tutela dei lavoratori impone un prezzo, che adeguare gli impianti comporta un onere. E se si può risparmiare... «Processo storico», «sentenza esemplare», i commenti a caldo dopo che il presidente del collegio giudicante Giuseppe Casalbore ha dato lettura del dispositivo. Sulla esemplarità, basterebbe sottolineare che una sentenza deve qualificarsi solo dell’aggettivo "giusta", ma questo è dettaglio marginale. Storico il processo di Torino è davvero: affermando la responsabilità di imprenditori che "non potevano non sapere", la sentenza farà da apripista a vicende giudiziarie analoghe in Europa e nel mondo. L’amianto è lavorato – tra l’altro – in Francia, in Svizzera, nel Regno Unito, negli Usa, in Brasile, Paesi dai quali si guarderà al pronunciamento italiano assumendo il verdetto come un punto fermo, un passaggio di non ritorno. Ovunque una multinazionale non dovesse garantire la sicurezza degli operatori e si registrassero casi di asbestosi sono da mettere in conto chiamate in giudizio e pesanti richieste di risarcimento a carico di chi dovendo provvedere non l’ha fatto. Toccata dalla sentenza contro Schmidheiny e De Cartier è soprattutto l’Europa. All’Unione l’esito del caso giudiziario deve suggerire l’adozione di comportamenti e misure che si muovano su due direttrici. La prima è di natura culturale: non deve passare l’idea che nel nome delle liberalizzazioni da più parti invocate sia lecito liberalizzare il capitolo sicurezza del lavoro e dell’ambiente, tagliando il tagliabile per ridurre i costi e alimentare per questa via l’economia. La seconda attiene al fatto che abbiamo un’Europa, o più propriamente una burocrazia europea, propensa a dettare normative su tutto, dalla superficie delle stie per i polli al diametro dei mandarini. Una più rigorosa legislazione comune in materia di tutela del lavoro, un sistema non tanto di direttive lasciate all’interpretazione degli Stati, ma di norme univoche strettamente vincolanti per la protezione di tutti scongiurerebbe nuovi "casi amianto" e varrebbe a rinsaldare il rapporto sfilacciato tra i cittadini e l’entità Ue avvertita distante, fredda, attenta più agli spread, al rigore finanziario e tutt’al più al "politicamente corretto" che ai diritti e alle libertà davvero fondamentali.
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