sabato 3 gennaio 2015
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Che la Nota pastorale sulla ’ndrangheta presentata ieri trovi un immediato antefatto nel forte monito di Papa Francesco a Sibari, il 21 giugno 2014, e nelle vicende delle processioni e degli inchini che hanno segnato la scorsa estate, talvolta con una esasperata virulenza polemica, è del tutto evidente, e in effetti era stata preannunciata dai vescovi calabresi proprio a ridosso di quegli eventi. A ben vedere, però, la Nota non si risolve in una dimensione pastorale (rinviando a un futuro Direttorio su aspetti della celebrazione dei Sacramenti e della pietà popolare) e neppure in una condanna del fenomeno criminale o nel disvelamento dell’uso strumentale della religione e dell’iconografia cristiana da parte delle organizzazioni criminali. In verità, a confermare la radicale incompatibilità tra Vangelo e mafia è sufficiente ricordare il martirio in odium fidei di don Pino Puglisi. Questa Nota, semmai, sembra animata dall’intenzione di sollecitare tutti i «cittadini della Calabria intera» a farsi carico del proprio destino, riscoprendo «la bellezza di lottare per la costruzione di un clima di libertà della polis, in cui i diritti di ciascuno siano riconosciuti e i doveri siano assunti da ognuno con responsabilità». Insomma, la Nota sta lì a ricordare che non si può essere buoni cristiani senza essere cittadini onesti, consapevoli – secondo il Magistero – che la politica è la forma più alta di carità. Come scritto nella Lettera a Diogneto, i cristiani «obbediscono alle leggi stabilite, ma col loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi», dal momento che la loro pratica quotidiana, a qualunque livello, è improntata alla radicalità evangelica dell’amore di Dio e del prossimo. Per questo, la parola chiave della Nota è presente già nel titolo stesso: «testimoniare», visto che solo se credenti e coerenti i cristiani diventano credibili (come usa ripetere l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace). E di cristiani credenti coerenti e credibili ha bisogno una terra ferita come la Calabria: il contrasto al fenomeno criminale non passa solo per l’azione repressiva, ma anche, e forse ancor prima, nel riscoprire il valore della responsabilità, che ha a che fare con il senso e il significato che ognuno di noi dà alla propria vita, sia nella dimensione individuale e familiare che in quella collettiva, e che però sembra franare rovinosamente sotto l’impatto di modelli culturali diffusi che esaltano i desideri rispetto agli impegni, l’io rispetto al noi, l’arricchimento veloce rispetto alla costruzione faticosa della ricchezza, la competizione a chi arriva prima e non a chi fa meglio. È su questo piano che si gioca la sfida più grande delle Chiese in Calabria.
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