giovedì 17 marzo 2011
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Il dibattito in corso sul disegno di legge «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» (Dat) impone riflessioni ponderate. Il ddl, spesso impropriamente definito come legge sul testamento biologico, ci interpella per quella responsabilità partecipativa che rappresenta uno dei principali fondamenti del vivere civile e democratico.È necessaria una legge di buon senso sulle Dat. Non è invece necessaria una legge sul testamento biologico, come alcuni auspicherebbero. La differenza non è formale, ma sostanziale. Con il termine Dat, secondo la puntuale definizione del Comitato nazionale per la bioetica, si intende un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Il testamento biologico, invece, è un documento che esprime una volontà vincolante "ora per allora", che presuppone la disponibilità della vita e riduce la dimensione della persona a cosa di cui disporre. Per le ragioni che giustificano la necessità di legiferare, basti ricordare la necessità di tutelare il paziente o grave disabile da possibili ingerenze o volontà ricostruite, da accanimenti o abbandoni eutanasici. In sintesi le Dat, non vincolanti e attualizzate nella specifica e concreta condizione, devono rappresentare uno strumento a garanzia dell’alleanza terapeutica e di cura. Altresì devono tutelare il paziente da eventuali comportamenti arbitrari da parte dei medici in caso di grave dipendenza da malattia o disabilità, ampliando la relazione in cui svolge un ruolo centrale il consenso informato e promuovendo l’esercizio dell’autonomia del paziente.Il fondamento antropologico e valoriale – laico e non di sola pertinenza cattolica – è che la vita umana non può essere considerata come un bene disponibile fino a riconoscimento, come si vuole da alcuni, del diritto a morire. C’è un diritto, questo sì, a morire con dignità, che non significa certo ricorrere a procedure eutanasiche, che si situano al livello delle intenzioni e dei metodi usati. È necessario, piuttosto, assicurare terapie e cure proporzionate e non futili finalizzate alla guarigione, se possibile, dalla malattia. Ove, invece, la malattia è inguaribile è doveroso assicurare quei supporti vitali di cura, quali a esempio alimentazione e nutrizione assistite, efficaci nel fornire fattori nutrizionali indispensabili alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Con le Dat, opportunamente normate, si offre una protezione al paziente o al grave disabile, assicurando quanto possibile e proporzionato in riferimento alla situazione clinica, attualizzata. Secondo scienza e coscienza del medico, in un incontro virtuoso tra fiducia e coscienza. Esautorare, con la vincolatività, il medico dal suo fondamentale diritto-dovere di assistenza e di sollievo dalla sofferenza significa ridurlo a mero esecutore di volontà altrui. Prospettiva, quest’ultima, del tutto disastrosa. A fondamento della non vincolatività delle Dat, è sufficiente sottolineare che proprio la vincolatività distruggerebbe la relazione di cura medico-paziente. Contrattualizzazione del rapporto, medicina difensiva, abbandoni di terapia e cura, prevarrebbero soltanto a danno del paziente. Ciò non significa, evidentemente, che il rapporto medico-paziente non si basi sul consenso. Tutt’altro. È proprio attraverso il prosieguo della relazione di cura che si tutela e si rispetta la dignità di ogni persona, per quanto in stato di grave fragilità.La tutela della vita umana è tutela del bene più prezioso, cifra della costitutiva relazionalità umana. Essere con gli altri, essere per gli altri.
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