venerdì 1 ottobre 2010
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C'è qualcosa di simbolico, e perfino di epico, in questa lotta ventennale fra una minuta, apparentemente fragile donna, armata solo della propria determinazione, e i generali della violenta giunta militare che opprime da troppo tempo Myanmar (l’ex Birmania). Da tempo Aung San Suu Kyi simboleggia agli occhi del mondo la speranza di libertà per questo Paese e sta diventando una delle grandi icone della lotta non violenta contemporanea, sulle orme di Nelson Mandela, Martin Luther King, il mahatma Gandhi. Una battaglia, la sua, finora non coronata dal successo. Non ancora, piacerebbe poter scrivere. Buona parte degli ultimi vent’anni della sua vita sono stati contrassegnati dalla detenzione, per lo più agli arresti domiciliari, forzatamente chiusa in un isolamento totale. Ora, una fonte anonima della giunta al governo, ne annuncia il rilascio (già previsto) per il 13 novembre, pochi giorni dopo le elezioni politiche. Le prime che si tengono nel Paese dal 1990, allorché i militari rovesciarono il verdetto popolare che aveva portato al trionfo il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia.Qualcosa si muove, quindi, in un Paese che pur resiste ad anni di pressioni internazionali ed embarghi economici. Che sia qualcosa di duraturo verso un allentamento della pressione, è ancora presto per dirlo. Lo scorso anno l’Amministrazione Obama aveva cercato, con una mossa simile a quella compiuta verso l’Iran, una soluzione tramite negoziati diretti. I risultati sono stati invero deludenti: le leggi emanate per le elezioni ne hanno limitato il valore politico, dato che la maggior parte degli oppositori non potrà parteciparvi e il regime si è riservato in ogni caso seggi e sicuri. Tuttavia, per quanto piccolo, è un passo. Come lo è la liberazione di questa bandiera della lotta per la democrazia. La vera scommessa è per quanto Suu Kyi rimarrà libera. Nelle ultime due decadi, a ogni rilascio è sempre seguito un nuovo arresto, con i pretesti più disparati. Nonostante le fosse stato assegnato il Nobel per la pace e nonostante le tante campagne internazionali.Si vedrà nei prossimi mesi la capacità dei militari di sopportare idee e linee politiche diverse espresse nel nuovo parlamento, anche se – come già ricordato – le voci d’opposizione saranno probabilmente caute e flebili. E si vedrà la volontà della comunità internazionale di accompagnare questo allentamento della dittatura. Cruciale sarà il ruolo di Pechino, il cui peso economico e politico cresce nel Paese. L’auspicio è che la Cina favorisca una lenta e cauta evoluzione del sistema anche se, come noto, i diritti umani non sono una merce che il gigante asiatico ama produrre in patria o esportare.Forse più ancora delle pressioni politiche giocheranno le necessità economiche. L’ex Birmania ha tutto per poter essere un Paese ricco: foreste di tek prezioso, terre fertili, gas, spiagge e luoghi di interesse storico e religioso per attirare i turisti. Eppure il popolo vive nella povertà, aggravatasi negli ultimi anni per le sanzioni e la crisi economica internazionale. In sovrappiù la corruzione e le inefficienze della giunta militare, coinvolta anche nel grande traffico di droga che esce dal Paese. Sono state proprio le insopportabili condizioni di vita a scatenare negli scorsi anni proteste repressione duramente. Ed è la fragilità economica che rischia di indebolire il regime. Si spiega così il nervosismo dei militari dinanzi al ritorno alla libertà di questa donna, figlia dell’eroe della indipendenza birmana, il generale Aung San, ucciso quando lei aveva solo due anni. Vista l’importanza della discendenza di sangue che accomuna l’Asia meridionale, non stupisce che Suu Kyi sia diventata il simbolo della resistenza: è successo anche in India con Indira Gandhi, figlia di Nehru, in Pakistan con Benazir Bhutto, in Bangladesh con Sheikh Hasina. Tutte figlie salite al potere tramite elezioni vinte. La speranza è che in futuro possa accadere anche a Myanmar.
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