venerdì 4 marzo 2011
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La Chiesa di Napoli piange la scomparsa di don Emanuele Amati, l’anziano prete ucciso martedì dall’incendio della canonica annessa alla chiesa di San Rocco a Capodimonte. La tragedia ha sconvolto l’intero quartiere. Gli volevano bene tutti. Lo avevo conosciuto anni fa, quando – giovane paramedico non cattolico – frequentavo i frati francescani rinnovati, che vivevano a ridosso della sua parrocchia in vecchi vagoni ferroviari arrugginiti, gelidi di inverno e roventi d’estate. Mi colpì allora quel prete che piangeva la sua mamma, deceduta da poco, come un adolescente. Aveva rifiutato, da anziano, di abitare nella confortevole struttura per il clero che il cardinale Sepe aveva inaugurato, preferendo la solitudine della vecchia canonica. Il prete. Se ne parla molto, e non sempre a proposito. È rimasto vittima, nel bene e nel male, di pigri stereotipi che tardano a morire. Il prete è un uomo, che resta tale anche dopo l’ordinazione sacerdotale. Un uomo al quale il mondo non bastava per i suoi desideri e, confusamente, avvertiva il fascino di doversi inoltrare per una strada impervia e sconosciuta. Non è vero che era tanto buono e altruista da non desiderare niente. Al contrario: era un ingordo che voleva tutto. «Se Dio c’è – pensava – voglio che mi diventi amico». E Dio un giorno tolse dal Suo volto un velo, uno solamente, e lo abbagliò. Lo sedusse. Non si comprenderà mai chi è il prete se non si parte da questa storia d’amore.Afferrato da Dio, liberamente accetta di esserne fatto prigioniero. Ricerca e si rifugia nel silenzio della solitudine, perché è nel silenzio che Dio gli parla al cuore. E lui ha terribilmente bisogno di ascoltarlo. Non è un monaco, però, e non può rinchiudersi nella sua celletta in perenne contemplazione. Deve calcolare i tempi per correre incontro all’uomo. All’uomo senza aggettivi. A qualsiasi uomo che Dio gli manda alle porte della chiesa. «Le porte della Chiesa!»: se fossi un poeta le vorrei cantare. A quelle porte bussano in tanti. Più di quanti gli ingenui ingenuamente credono. Mendicanti nei quali si nasconde Dio. O, forse, Dio stesso travestito da mendicante. Mendicanti di comprensione, di ascolto, di pane. Gente che prende il proprio cuore e glielo affida, chiedendo al prete di amarlo e custodirlo. A quelle porte giungono anche i ricchi. Anche per loro il prete è prete. Non tutti riescono a capire. «La Chiesa – dicono costoro – deve stare con i poveri». Verissimo. Con tutti i poveri, senza distinzione. Cioè con tutta l’umanità che è sempre povera, anche quando nuota nel benessere. Di fronte al mistero in cui siamo immersi, all’egoismo che ci assale, alle delusioni e alle tragedie che si abbattono impietose, gli uomini sono tutti e sempre poveri.Il prete lo sa. E sa che, mentre gli viene chiesto tanto, non gli sarà perdonato niente. Non saprei dire se è un bene o un male. Certamente è uno stimolo a stare svegli, con i calzari ai piedi e le lucerne accese. La gente, anche chi non crede, lo vuole santo, distaccato, umile. È come se gli dicesse: «Siamo peccatori. Ma tu che affermi di aver incontrato Dio faccelo vedere. Parlaci di lui, anche quando siamo stanchi di ascoltare. Insisti. Non ti fidare di ciò che appare a prima vista...». Vive nel mondo, che ama e per il quale prega, ma è come se quel mondo non gli appartenesse. La sua presenza deve richiamarne incessantemente un’Altra. Si avverte come l’asinello che la Domenica delle Palme porta in groppa il Figlio dell’Altissimo. È lui che il mondo cerca. È una sfida affascinante e ardua che accetta con timore sapendo di contare sulla fedeltà di Dio. Don Emanuele, prete discreto e mite, è morto. Era solo, la notte dell’incendio, e questo ci rattrista. Ma la sua solitudine era carica della presenza di quel Dio che per tutta la vita ha cercato e contemplato: «Alla sera della vita ciò che conta è avere amato».
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