martedì 5 luglio 2011
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Il novembre 2009 Benedetto XVI dettava una pagina memorabile per la fenomenologia dell’arte e della poesia nell’età moderna: al cospetto di circa 400 artisti invitati alla Sistina (dalla poesia al cinema, dall’architettura alla fotografia, tutto), enunciava la natura intrinsecamente sacra e religiosa dell’arte in quanto tale, a prescindere dalle convinzioni dell’autore in materia religiosa. Fu una prolusione storica, anche se imprevedibile solo a chi non conosca le ragioni antropologiche della fede e dell’arte. In realtà colpiva la lucidità scultorea con cui Benedetto XVI definiva arte e poesia in sostanza dell’essere umano, nel nucleo dell’homo religiosus, che non è una variante, ma una realtà archetipica dell’uomo.0 Oggi gli artisti ricambiano il grande gesto con dei doni, offrendo loro opere, prodotti dello spirito, di quella realtà immaginosa e potente che il pensatore Ratzinger considera cuore pulsante dell’essere umano nel tempo, e forza al confine l’oltretempo. Pensai allora, e oggi penso ancor più accesamente, a una sorta di disegno vichiano, una teodrammatica nella quale il mondo rivive la sua genesi attraverso due pontefici che agiscono in una età cruciale. Karol Wojtyla era poeta e drammaturgo, per intenderci l’attività di Omero, Eschilo, Euripide: i primordi estetici dell’uomo, lo stupore dell’universo. A lui segue Joseph Ratzinger, filosofo, pensatore, come ai tragici seguirono i filosofi, Platone, Socrate, che non distrussero quell’età eroica di nascita, ma la perpetuarono in forme nuove, logiche, dialettiche, allora inedite. Il Papa del pensiero segue al Papa del verso e della visione e più di questi teorizza verso e visione, poesia e arte, perché le inscrive nelle necessità primarie della specie umana. Mentre tutto ciò avviene, mentre cioè un Papa che vive e segna il passaggio dal Novecento, secolo della crisi, al nuovo millennio, mentre avviene che il Papa gioisca degli omaggi degli artisti e cerchi di trattenersi con loro più di quanto gli consentano l’agenda e il protocollo, mentre insomma pare godersi come un fanciullo questi doni che per lui, uomo di spirito, sono i più preziosi (uomo di spirito o uomo misericordioso, non è detto che siano tutti capolavori) mentre tutto ciò avviene non possiamo non registrare che il Pontefice e quindi la Chiesa cattolica sanciscono alcune posizioni sostenute eroicamente (perché drammaticamente) da grandi poeti, come Shelley, Baudelaire, che non erano cristiani o lo erano a modo loro. Dal Pontefice giunge il riconoscimento della realtà antropologica essenziale: l’homo religiosus, l’uomo religioso, non è solo l’uomo che si inchina e prega, è anche, simultaneamente, l’uomo che si inginocchia alla bellezza. Con passione, misericordia e estetica che coincidono. Verità, carità, bellezza, le tre parole cardini. Il vero è inseparabile dal bello. Non è un concetto automaticamente accettabile, contiene il paradosso di ogni sapienza, e certo di quella cristiana. Ma entra qui e ciò ulteriormente turba, la parola carità. Che c’entra, ci domandiamo istintivamente, la carità con la verità e la bellezza? Possiamo capire il legame che Ratzinger vede tra i due termini. Ma perché la carità? Come poeta, come invitato indegno a questa mensa, mi domando: perché la carità? A questo punto comprendo, o almeno sospetto, di non essere del tutto inadeguato all’invito. Perché solo un poeta, o un artista, può intuire immediatamente la natura della carità, enigmatica nella famosa pagina di San Paolo. Non è niente di specifico, la carità, ma è tutto. Non è una cosa, ma il magico collante delle cose. Questo, nella magistrale e autonoma esegesi di Gianfranco Ravasi, ci dice il Pontefice Ratzinger. La carità non è una virtù, non è un precetto. È il simbolo, il senso cruciale dell’essere. Ciò senza cui verità e bellezza svaporano e si perdono come un miraggio.
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