giovedì 3 marzo 2011
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Giampilieri, Rogliano, Gallico, Gioia Tauro, Vibo Marina, Sant’Elpidio, Materano... sono i nomi che scorrono nella cronaca di questi due giorni di nuovi (o vecchi?) dissesti idrogeologici. Nomi che ritornano, sempre gli stessi. Anche il fiume Ete Morto che ieri si è portato via tre vite nelle Marche è stato "protagonista" di eventi disastrosi già nel 2004, nel 2000, e due volte nel 1999. Nomi che ritornano come accade per le strade a più alto rischio di incidenti. Quelle dove incontriamo tante piccole croci, quegli altarini con fiori, foto e bigliettini che ci ricordano le vite spezzate lungo le strisce d’asfalto. C’è una classifica delle strade più pericolose, è ben nota. Si basa sui morti a chilometro. Ma anche le aree più a rischio di frane o alluvioni sono ben note, ma nessuno ha mai fatto una classifica dei "morti per ettaro". Strade killer e versanti killer. Ma in realtà il killer è sempre lo stesso, l’uomo con la sua imprudenza, con le sue scelte urbanistiche dissennate e criminali, con il suo saccheggio del territorio. Dimenticando troppo presto i guasti del passato. Nomi che ritornano, che dovrebbero evocare terribili immagini di disastri e di morte. Andate a vedere sui siti Internet alcune riprese fatte con i cellulari delle nuove colate di fango nel Messinese e confrontatele con quelle dell’ottobre 2009: identiche. Per fortuna, oggi senza quei 37 morti, quelle 37 croci. Nomi che si ripetono, e come potrebbe essere diversamente visto che ben l’82 per cento dei comuni italiani è considerato a rischio idrogeologico: lo si legge nell’ultimo dossier «Ecosistema rischio 2010», elaborato dalla Protezione civile e Legambiente. Percentuali che arrivano al 100 per cento per Calabria e Basilicata, al 99 per cento per le Marche, mentre la Sicilia è "solo" al 71 per cento. Nomi che ritornano, come accade per le strade killer. Per queste ultime si spende molto in materia di sicurezza: guard-rail, terze corsie, curve ammorbidite, illuminazione nelle gallerie e altri preziosi accorgimenti. Si fa tanto e si spende tanto. E per la aree a rischio di frane e alluvioni? Pochi spiccioli, che alla fine si usano per altro. Servirebbero, lo si dice da anni, almeno 45 miliardi per mettere in sicurezza l’intero territorio nazionale. Dopo l’alluvione del Messinese del 2009, e dopo un durissimo contrasto con il collega Tremonti, il ministro per l’Ambiente Stefania Prestigiacomo riuscì a fargli aprire la borsa ottenendo un miliardo. Per la prevenzione, per le messa in sicurezza. Come per le strade. Ma a maggio dello scorso anno 100 milioni sono stati utilizzati non per la prevenzione, bensì per alcune emergenze. Per intervenire dopo i disastri. E nel decreto "milleproroghe" sono stati previsti altri 100 milioni per le alluvioni in Liguria, Veneto, Campania e, addirittura, per Messina 2009. Dove prenderli? Sempre dal miliardo per la prevenzione. Così ora restano 800 milioni. E poi come stupirsi se, sempre leggendo il dossier, scopriamo che nelle Marche solo il 17 per cento dei Comuni ha svolto un lavoro "positivo" per mitigare il rischio idrogeologico, appena il 13 per cento in Basilicata, l’11 in Calabria e il 7 in Sicilia. Nel frattempo, tra ottobre 2009 e novembre 2010, sono stati stanziati per le principali emergenze idrogeologiche ben 645 milioni. In appena un anno, solo per le situazioni aperte (attualmente gli stati d’emergenza ancora in vigore per frane e alluvioni sono 29 da Nord a Sud), solo per riparare i guasti. Non per mettere in sicurezza quei 3 milioni e mezzo di persone che vivono nelle zone più a rischio. Così continuano a crescere le croci lungo quei versanti disboscati, su quelle rive di fiumi cementate, sotto quelle frane che nessuno controlla, in quei paesi costruiti male e peggio conservati. Nomi che ritornano. Sempre gli stessi.
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