giovedì 4 novembre 2010
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Nel linguaggio di Borsa, si dice: «Compra sulle voci, vendi sulle notizie». Ieri, dopo il voto di Midterm americano, Wall Street ha aperto in rosso. A dimostrare che il risultato delle elezioni ha confermato le previsioni formulate con largo anticipo. Per gli operatori era quindi tempo di capitalizzare i guadagni fatti nella prospettiva di una vittoria dei repubblicani (nel finale di seduta è poi arrivata l’immissione di liquidità della Fed a risollevare i listini). Obama – come ampiamente scontato – è stato punito dagli elettori che hanno messo l’economia in cima alle loro preoccupazioni, lasciando ai margini del dibattito riforma sanitaria, immigrazione e guerra in Afghanistan. La crisi morde e l’attuale Amministrazione viene giudicata incapace di stimolare la ripresa e l’occupazione. Una marea rossa – il colore dei nipotini di Bush – ha coperto le cartine elettorali degli Usa, ma è proprio questa nuova geografia del Congresso e degli Stati a creare incertezza per il futuro, anche sui mercati. Il "governo diviso" non è una novità nel panorama di Washington: il presidente dovrà fronteggiare una Camera passata ampiamente ai suoi avversari – che hanno come primo obiettivo sfrattarlo dalla Casa Bianca fra due anni – e un Senato dove la risicatissima maggioranza democratica non gli offre garanzie. Accadde anche a Bill Clinton nel 1994 e ciò non gli impedì di essere rieletto. Ma uno degli esiti dello scontro sul bilancio tra quello che è ancora l’uomo politico più popolare del Paese e il leader della maggioranza Newt Gingrich fu la paralisi senza precedenti di uffici e servizi pubblici per mancanza di fondi. Un braccio di ferro di quel tipo – ipotizzano alcuni analisti – potrebbe ripetersi, visto l’accresciuto radicalismo che ha contagiato la scena americana, e perfino giovare a Obama. Il presidente avrebbe infatti l’opportunità di additare un chiaro responsabile per le difficoltà nel combattere la recessione. Il deficit dei conti federali è però un’emergenza della quale gli stessi repubblicani saranno chiamati a farsi carico, senza poterla usare soltanto come una clava contro i rivali. E le ricette che si prospettano – dai tagli della difesa e di alcuni programmi sociali diffusi e apprezzati fino all’aumento delle tasse – sono i tabù del movimento che ha guidato la riscossa del fronte conservatore. Meno Stato, meno spese, ma non meno sicurezza nazionale, hanno promesso i Tea Party, artefici della bocciatura del presidente e del suo programma più che dell’affermazione repubblicana. In un elettorato sfiduciato e sempre più ostile ai partiti tradizionali, la spinta dei populisti ha intercettato una crescente ansia di cambiamento che percorre la parte di popolazione ancora disposta ad andare alle urne (l’affluenza negli Usa è assai più bassa di quella italiana ed europea). In un’era di accelerazione – reale e soggettiva – del tempo, la politica deve fare i conti, e non solo in America, con un’ansia di novità che finisce con il travolgere la "svolta" elettorale precedente, non tenendo conto delle insuperabili "lentezze" della politica rispetto alla comunicazione elettronica. La speranza sollevata da Obama è sfiorita in meno di due anni, complice ovviamente il disastro economico; il riflusso antistatalista potrebbe avere vita altrettanto breve, sia per l’inesperienza dei parlamentari del Tea Party, sia per la necessità di venire a patti con la realtà che non consente fughe in avanti ideologiche. Mentre i repubblicani e Clinton si facevano la guerra nella seconda metà degli anni Novanta, Osama Benladen preparava quasi indisturbato l’attacco all’America. Oggi la nazione che teme il declino e cerca ancora di affermare a parole il suo "eccezionalismo" deve confrontarsi con un mondo – la Cina e le altre nazioni emergenti – che corre più veloce. Ma che ha paradossalmente ancora bisogno di una riconoscibile e dialogica leadership – economica, diplomatica, militare – a stelle e strisce. Quella che Obama aveva preannunciato e che ancora non si è concretizzata. Da spettatori interessati si può solo auspicare che a Washington non prevalga un piccolo cabotaggio di conflitto interno. E che la fisiologia di un grande sistema democratico non vada incontro a una rischiosa rincorsa al cambiamento di facciata (e ciò vale per tutti gli schieramenti), che elude i grandi problemi o non permette che vengano affrontati con la necessaria prospettiva temporale.
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