domenica 3 ottobre 2010
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Dieci anni fa Luiz Inácio Lula da Silva stava ancora leccandosi le ferite dopo la terza sconfitta consecutiva alle presidenziali. Il Bric (il gruppo dei Paesi emergenti guidato proprio dal Brasile) non era stato nemmeno "inventato". Il gigante sudamericano per quasi tutti restava "calcio e carnevale". Magari con l’aggiunta delle favelas. Ma i semi dello sviluppo erano già stati piantati. E l’abile giardiniere doveva aspettare il suo momento per prendere il comando. Oggi un Paese lanciato nella crescita, protagonista sulla scena internazionale, va alle urne per trovare il successore di Lula, che tra tre mesi lascerà la più alta carica al picco di popolarità, probabilmente la più alta al mondo (nazioni totalitarie escluse). In una società spensieratamente esuberante, o caotica, come dice qualcuno, l’operário che allora spaventava i latifondisti spinge alla leadership un’ex guerrigliera (Dilma Rousseff) adesso sostenuta anche dal mondo finanziario, rassicurato dalla prospettiva di continuità. Si dice che uno dei migliori indicatori per distinguere un’economia sviluppata da una in via di sviluppo sia la consistenza della sua classe media. Il Brasile, dal 2005 al 2009, ha visto 29 milioni di persone entrare in questa fascia di reddito e di status. Più o meno negli stessi anni il tasso di povertà è sceso dal 34 al 22,6%. Merito del boom, favorito dalle lungimiranti politiche infrastrutturali, ma anche dei programmi sociali del governo, e della Bolsa Familia in particolare, il sussidio mensile per i genitori che tengono i ragazzi a scuola. Lula l’ereditò dal predecessore Ferdinando Henrique Cardoso e l’ha ampiamente diffuso. Il principale merito di Lula è stato proprio quello di aver resistito alle tentazioni populistiche e di aver proseguito sulla strada intrapresa da Cardoso: economia di mercato e porte aperte alla globalizzazione. La "legittimazione" da sinistra di un modello sostanzialmente liberale e occidentale – che sta funzionando grazie alla congiuntura, alle enormi risorse naturali e al punto di partenza basso – ha unito e messo le ali al Paese. Ma se tanta strada è stata fatta, molta ne resta da fare. Il Brasile continua a esibire un profilo di distribuzione di reddito e di ricchezza fortemente segnato dalle disuguaglianze. E ora che hanno superato il problema della sopravvivenza quotidiana, numerose persone hanno l’opportunità di reclamare maggiore giustizia. Le sperequazioni sono anche all’origine della violenza di strada che rende insanguinate e insicure le metropoli; alimentano la piaga della droga; e assorbono ingenti risorse, impiegate nel contrasto del crimine e non negli investimenti che servirebbero per un ulteriore salto di qualità della struttura produttiva e commerciale. Lula, che ha puntato con successo sui biocarburanti, non ha realizzato la tanto attesa riforma agraria, preferendo puntare sulla modernizzazione delle colture. Chiunque verrà dopo di lui dovrà puntare sull’istruzione: si stima che soltanto un brasiliano su quattro sia perfettamente alfabetizzato. Con i nuovi grandi giacimenti petroliferi al largo delle coste atlantiche, i fondi non mancheranno. Il punto è che vadano nelle mani giuste. La corruzione è infatti un cancro che continua a prosperare: immensi scandali per compravendite di voti e tangenti sono scoppiati sotto Lula e uno ha appena colpito la Rousseff. Persino la Chiesa è scesa in campo in prima persona per promuovere una legge che vieti la candidatura a chi ha condanne penali. E se i vescovi si sono rallegrati per i miglioramenti delle condizioni di vita della gente, manifestano preoccupazioni per i segnali (poi corretti) che la favorita nel voto di oggi ha lanciato a proposito di legalizzazione dell’aborto e di riconoscimento delle unioni omosessuali. Colui che raccoglierà la ricca eredità di Lula non potrà comunque accomodarsi sugli allori. C’è anche da gestire un riconosciuto profilo internazionale, che deve essere però meglio definito. Senza il carisma del leader capace di entusiasmare il Social Forum e di piacere ai Grandi, sarà più difficile essere amici di Castro, Chavez e Ahmadinejad facendo affari con gli Stati Uniti, la Colombia e Israele. Insomma, il vero test per il Brasile sarà quello di avanzare anche con un presidente "normale".
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