mercoledì 10 febbraio 2010
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Caro direttoredunque la Fiat rifiuterebbe gli aiuti statali (magari fosse vero, meglio tardi che mai). Secondo me sarebbe una novità che permetterebbe di rompere quel malefico circolo vizioso. Stato: «Siccome ti ho aiutato devi continuare a mandare avanti un baraccone improduttivo». Fiat: «Siccome mi hai fatto tenere aperto un baraccone improduttivo, adesso mi devi aiutare ancora e per sempre, altrimenti chiudo». Basta è ora di finirla. Le ditte private devono rimanere sul mercato con le proprie gambe. È questa l’economia sana e anche morale. Fino a ora, l’aiuto della politica giustificava l’intromissione della stessa, che obbligava la ditta ad assumerne in soprannumero i tirapiedi e i protetti. Questo inciucio deve finire! Addirittura i politici si vantavano di aver tenuto in piedi simili baracconi e chiedevano voti in cambio. Che malinteso, che schifo! Se avessimo dato lo stipendio gratis ai dipendenti Alitalia, senza pretendere da loro alcuna prestazione lavorativa, sono convinto che nel tempo avremmo speso meno soldi. Una ditta privata, per un liberale come me, deve stare sul libero mercato, non deve, salvo situazioni eccezionalissime, ricevere aiuti. Deve comunque esserci un responsabile, che in caso di errori, paghi. Se i responsabili sono due: Stato e proprietà, questi si daranno la colpa l’un l’altro e nessuno si prenderà a cuore il problema. Tanto paga Pantalone! E i poveri dipendenti di Termini Imerese? Quelli devono essere aiutati e non abbandonati, ma debbono essere aiutati dallo Stato, dal governo, e non da un privato che non li ha nemmeno sposati. Speriamo la notizia del rifiuto di aiuti da parte della Fiat sia vera, sarebbe un rigurgito di orgoglio e onestà intellettuale, ma temo seriamente che gli aiuti saranno accettati.

Annibale Bertollo

Il nostro lettore ha colto certamente uno dei problemi che dall’inizio dell’era industriale ha caratterizzato il nostro Paese: una certa commistione di interessi tra impresa privata e politica, tra sviluppo complessivo del Paese e agevolazioni a singole aziende. Gli esempi storici non mancano e la Fiat, come molte altre grandi aziende, è stata al centro di questi processi: ha ricevuto diverse agevolazioni ma, piaccia o non piaccia, ha contribuito non poco anche a favorire il progresso economico e sociale del Paese. Nel caso specifico della Fiat e del futuro dello stabilimento di Termini Imerese, la rimando alle pagine e ai commenti che abbiamo pubblicato. Sul piano generale, per natura rifuggo dalle semplificazioni e dalle dietrologie spicce. Non credo, insomma, che – oggi – la politica prenda alcune decisioni per poi «far assumere i suoi tirapiedi». Così come non credo che ogni agevolazione da parte dello Stato o degli enti pubblici sia un «regalo» fatto ai privati perché possano privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite. Agevolare le imprese (tutte possibilmente, non solo le grandi, ovvio) per favorire la nascita di nuove attività e nuovi posti di lavoro, promuovere lo sviluppo di un dato territorio, rientra tra le scelte possibili, direi auspicabili, che uno Stato può compiere. È quella che si chiama «politica industriale», rispetto alla quale dovremmo interrogarci non se sia lecita o meno in un sistema liberale, piuttosto quanto sia effettivamente efficace ogni singola scelta, quale bilancio costi-benefici comporti, non solo sul piano strettamente economico, ma anche sociale, rispetto a quella visione di bene comune che dovrebbe rappresentare la stella polare dell’agire politico. In questo senso non mi convincono neppure quei teorici del liberismo che tendono a ridurre la «responsabilità sociale» di chi fa impresa al mero sviluppo di «innovazione e competitività». Se così fosse; se tutto fosse così semplice, dovremmo prendere per buona qualsiasi innovazione di processo industriale – magari altamente inquinante – o un qualsiasi miglioramento della competitività dell’azienda sul mercato, basato magari sulla compressione dei costi relativi alla sicurezza sul lavoro o più semplicemente sulla progressiva riduzione dei salari dei dipendenti. Anche per me è insomma inconcepibile che l’attività di un imprenditore sia del tutto sganciata dai destini della comunità, sia interna sia esterna all’azienda, in cui opera. Un impianto teorico di questo tipo sconta un deficit iniziale: quello di non partire dalla verità dell’uomo e dalla sua centralità anche nel processo economico. Riportare l’economia a fare i conti anzitutto con una corretta antropologia è invece il perno centrale dell’enciclica "Caritas in veritate". Un contributo forte alla riflessione anche per il mondo laico e liberale.
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