giovedì 12 settembre 2013
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La crisi in Siria e l’uso di armi chimiche sono sulle prime pagine della stampa mondiale, dominano il dibattito politico e diplomatico e sono discussi in ogni talk show. Dovunque si parla di Siria. Ma non ovunque e non da parte di tutti si parla del popolo siriano. Sono appena rientrata da Damasco, dove la situazione continua a deteriorarsi. Il rumore dei mortai è assordante e continuo, incessante. Intere periferie sono bombardate in maniera indiscriminata e città intere sono sotto assedio. Individui e comunità che hanno convissuto in pace per generazioni si stanno ora rivoltando gli uni contro gli altri. La gente ha paura: in mezzo a combattimenti, brutalità e abusi dei diritti umani, non sanno che cosa riserverà loro il futuro. Una madre di nome Jameelah mi ha raccontato che i suoi figli si svegliano in lacrime, chiedendo se qualcuno stia arrivando per far loro del male. Milioni di persone mancano di cibo, acqua ed elettricità. Intere comunità sono al limite della sopportazione. Più di due milioni di siriani hanno già abbandonato il Paese. Il collasso dell’economia significa che le persone non possono permettersi di sfamare le famiglie e devono affrontare la scelta impossibile tra andarsene e restare. Da un lato il rischio di morire, essere feriti o ammalarsi, la carenza di personale medico e strutture sanitarie, i prezzi dei beni di prima necessità alle stelle; dall’altro, un futuro incerto da senzatetto o da rifugiati. L’istruzione dei figli, il lavoro, le cure per malattie croniche come il diabete o la dialisi renale: tutto perduto, forse per sempre. Nemmeno gli sforzi delle agenzie umanitarie sono in grado di far fronte a queste necessità. Le Nazioni Unite, presenti in Siria con un migliaio di persone, e i nostri partner, che lavorano accanto a Ong e organizzazioni locali per raggiungere i più bisognosi, sanno che quello che stiamo facendo non è abbastanza. Molte aree del Paese restano inaccessibili, perché troppo pericolose da raggiungere o perché ai convogli umanitari non è consentito attraversare le decine di posti di blocco presidiati da diversi gruppi armati. Ci riferiscono che le scorte alimentari sono a un livello pericolosamente basso in alcune zone, ma non c’è niente che possiamo fare. Con altri 3.500 suoi dipendenti, l’Onu sta lavorando con i rifugiati palestinesi, i cui campi e le cui comunità sono stati presi di mira. Mentre continuano gli sforzi per trovare una soluzione politica al conflitto, occorre ricordare che – dietro a tutte le parole spese sulla catastrofe umanitaria, dietro a tutte le cifre – ciò che conta sono le persone. Capita di vedere immagini tanto forti e brutali da essere tentati di ignorarle. Per noi è difficile stare a guardare, ma per i siriani si tratta di una realtà quotidiana. Dopo quello che ho visto e sentito in Siria, mi sono resa conto dell’immenso costo umano della crisi. Il Consiglio di Sicurezza è ancora diviso sulle modalità di una possibile soluzione politica. Nel frattempo, però, dobbiamo unire le forze per rafforzare la risposta umanitaria. E io torno a rivolgermi ai membri del Consiglio di Sicurezza, invitandoli a impegnarsi per garantirci pieno accesso e permetterci così di raggiungere le vittime nelle aree più colpite, proteggere civili, strutture sanitarie e operatori umanitari. Chiedo a tutti i governi di mettere a disposizione risorse finanziarie per consentirci di continuare il nostro lavoro. Numerosi siriani, soprattutto donne, accusano la comunità internazionale di averli abbandonati; ci accusano di fare finta di niente. Sono determinata, grazie al nostro comune impegno, a dimostrare loro che si sbagliano. Dobbiamo provare alla popolazione siriana che non è sola, che non la abbiamo abbandonata, che al mondo importa.
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