venerdì 9 novembre 2018
Gli interventi necessari per lo sviluppo: gandi poli agricoli e microprogetti non sono alternativi
Un pozzo realizzato dalla Croce Rossa a Garissa in Kenya (Ansa)

Un pozzo realizzato dalla Croce Rossa a Garissa in Kenya (Ansa)

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Nelle università italiane è attiva da tempo una corrente di studio che vorrebbe riformare la cooperazione agricola con l’Africa. Cattedre e convegni dove si congetturano i più diversi sistemi per 'aiutarli a casa loro', puntualmente criticati da chi – operando sul campo – è convinto che i grandi investimenti stranieri nelle agricolture africane altro non siano che neocolonialismo mascherato. «Critiche in qualche misura condivisibili – ammettono Giuseppe Bertoni e Vincenzo Tabaglio dell’Università Cattolica, che firmano uno studio edito recentemente dalla Federazione degli agronomi Fidaf – poiché investimenti di questo tipo sono inevitabilmente destinati a realizzare estese piantagioni moderne e grandi complessi aziendali» e conducono alla marginalizzazione dei piccoli produttori. Tuttavia, avvertono, «se ben gestiti possono accrescere sensibilmente le disponibilità alimentari del Paese beneficiario senza aggravare l’impatto ambientale». Di diverso avviso il Cefa, una delle ong più attive in Africa: «Non è solo un problema di gestione. Alla base c’è una scelta di campo tra un’agricoltura di tipo industriale e intensiva e una che valorizza gli small farmers – obietta il direttore Paolo Chesani –. Per esperienza diretta, i player che affittano settemila ettari e impongono le proprie strategie produttive e distributive snaturano l’agricoltura locale e l’ecosistema in cui è inserita. Assecondare questa logica significa vedere nell’Africa solo una grande fabbrica di cibo per i mercati in espansione, dai Paesi arabi alla Cina, e rischiare che molto poco di quanto prodotto vada a migliorare le condizioni alimentari ed economiche della popolazione locale».


La dimensione della sfida rende complicato stabilire se abbiano maggiore impatto i 'poli di crescita agricola' promossi da grandi investitori pubblici e privati o i microprogetti delle Ong; termine peraltro contestato dagli interessati, «in quanto veicola l’idea che ci sia un’agricoltura efficiente e un’agricoltura di sussistenza, incapace di rifornire i mercati. Non è così: in Somalia abbiamo creato con i nostri 'microprogetti' una filiera del sesamo che dà lavoro a 8.000 famiglie ed è competitiva con gli storici produttori di sesamo dell’India e della Cina», come sottolinea Chesani.

Che le due visioni della cooperazione agricola siano, se non contrapposte, sicuramente dialettiche, non c’è dubbio – come dimostra anche l’aspro dibattito sugli Ogm – ma forse un punto di contatto si può trovare: secondo Bertoni e Tabaglio, bisogna superare la tendenza a operare per compartimenti stagni (investitori istituzionali versus ong) e propiziare l’accesso dei piccoli contadini africani all’innovazione tecnologica. Superare il cosiddetto ultimo miglio. «La nostra esperienza dimostra – scrivono gli agronomi – che gli interventi infrastrutturali e strutturali sono necessari, ma non sufficienti; abbiamo constatato in Congo e in Etiopia che la realizzazione di buone strade, anche nazionali, favorisce i commerci e ciò è un bene, ma i piccoli farmers se lasciati soli in vista di un presunto autosviluppo, non sono in grado di avvalersene e anche altre componenti della società lo fanno in misura limitata». Chesani auspica che si riescano a realizzare programmi che aiutino ancor più gli agricoltori, ma avverte che «non tutta l’Africa è uguale, in taluni Paesi i contadini usano già tecnologie moderne».

Se per gli uni, dunque, coprire l’ultimo miglio è difficile in quanto le popolazioni rurali africane mantengono un atteggiamento di passività, le Ong sottolineano l’esistenza di uno spirito imprenditoriale soprattutto nelle aree urbanizzate e programmi come E4Impact, il master in business administration già avviato in otto Paesi africani e che sta partendo a breve in altri tre, cercano di intercettarlo e potenziarlo. «Forniamo un diploma ma anche strumenti per avviare imprese locali o per accelerarne lo sviluppo – spiega l’amministratore delegato dell’omonima fondazione Mario Molteni – e presto apriremo nuove sedi in Sudan, Rwanda e Gabon'. E4Impact è una fondazione nata in seno ad Altis (Università Cattolica) e sostenuta da numerosi partner privati: «Aiutiamo l’impresa locale a svilupparsi ma operiamo anche per intensificare l’ingresso delle imprese italiane nel continente africano» conferma Molteni. In pochi anni sono stati formati 700 imprenditori, di cui oltre il 40% nel settore agroindustriale, e dai corsi Mba sono sorte 300 nuove imprese, che danno lavoro a quasi 4.000 persone. La E4Impact Foundation vede tra i propri promotori importanti imprese italiane: Securfin (Letizia Moratti è la Presidente della Fondazione), Salini-Impregilo, Mapei, Bracco, Eni, Intesa Sanpaolo, Gefi, Lisa.


Va ricordato che lo sviluppo rurale dell’Africa è decisivo, perché, diversamente da altre aree del pianeta, la popolazione è ancora legata al lavoro dei campi per il 70-80% e favorire lo sviluppo agricolo significa migliorare la disponibilità di cibo ma anche generare reddito, commerci e artigianato, insomma sviluppo generalizzato. Come per Molteni, anche secondo Bertoni e Tabaglio, «un corretto sviluppo rurale richiede un approccio olistico e ciò significa andare oltre l’azienda agricola per conseguire anche opportunità lavorative al di fuori dell’azienda e per integrare la popolazione rurale con il mercato». Per ottenere questo risultato, dicono, non ci si può limitare a un piano Marshall ma bisogna cambiare il modus operandi: «non basta far giungere attrezzature e informazioni tecniche, ancorché corrette e appropriate; le popolazioni locali hanno infatti bisogno di vederle applicate in dimostrazioni dirette, obbligatoriamente con la loro partecipazione (ricordiamo il proverbio africano: quello che tu fai per me, senza di me, è contro di me); è indispensabile che siano resi disponibili, sulla porta di casa, anche i mezzi tecnici necessari; le popolazioni rurali debbono, inoltre, essere portate per mano al superamento degli atavici atteggiamenti di sfiducia e di individualismo; gli interventi di finanziamento esterno debbono poi essere programmati, sin dall’inizio e in modo esplicito, per avere un termine'.


Fatte queste premesse, sostengono che «le Agenzie incaricate di supportare lo sviluppo nei Paesi poveri (compresa l’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo) non dovrebbero limitarsi ad investimenti strutturali o infrastrutturali, né a diffondere genericamente le conoscenze necessarie per l’innovazione. In particolare, per quest’ultimo aspetto occorre che a veicolare l’informazione-innovazione siano entità capillarmente diffuse anche nelle periferie (parrocchie, Ong laiche o religiose ecc.), ben inserite fra la popolazione e abili ad aiutare i contadini ad assimilarla. A loro volta, queste entità periferiche dovrebbero essere appositamente preparate e potenziate allo scopo di organizzare i contadini nel reperimento dei mezzi tecnici (sementi, fertilizzanti, piccole attrezzature, ecc.), nel farne un uso appropriato e, ove possibile, nel commercializzare i prodotti agricoli eccedentari; idonee sub-agenzie tecniche (governative e non), dovrebbero essere incaricate – dai responsabili dei progetti di sviluppo – del compito di interfacciarsi con le predette entità periferiche per fornire loro le linee guida (e il supporto finanziario) per attuare, nelle specifiche condizioni locali, gli auspicati poli di sviluppo rurale sostenibile, premessa di quello complessivo».

Bertoni ha promosso un modello (C3S) basato su interventi esterni di sostegno allo sviluppo rurale (finora attivato in India, Congo ed Etiopia): l’obiettivo, dice, dev’essere quello di costituire nuclei locali di sviluppo rurale (non poli) «che, se basati su tecnologie appropriate, potrebbero facilmente creare i presupposti per una emulazione alla portata di gran parte dei piccoli contadini delle aree circostanti, proprio grazie alla cosiddetta diffusione passiva dell’innovazione». Questi mediatori dovrebbero essere appositamente formati, oltre che sostenuti tecnicamente e finanziariamente (sia pure a livello istituzionale), e innescherebbero uno sviluppo dal basso, «creando le premesse – concludono Bertoni e Tabaglio – per cooperare con la FAO e i grandi investitori istituzionali, rendendo in tal modo più efficace l’azione di tutti».

(Fine - Il primo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2018)

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