venerdì 9 dicembre 2011
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«Don Gio­vanni siamo noi». «Don Giovanni è l’uomo di oggi». È con un po’ di inquietudine che, per certi versi, potremmo dare ragione a Robert Carsen, il regista che ha appena portato alla Scala il capolavoro di Mozart, e a Daniel Barenboim, il direttore d’orchestra. Il licenzioso cavaliere, infatti, ha un solo credo, la 'libertà': intesa come potere di fare ciò che si vuole, come autodeterminazione assoluta, intenzione di vivere senza limite alcuno, diritto di appagare ogni propria pulsione. Se prescindiamo dalla non dissimulata ammirazione con cui Carsen descrive il suo Don Giovanni («È l’uomo vero, ama la libertà di fare ciò che vuole perché ha capito l’assurdità della nostra esistenza»), siamo d’accordo con lui: nell’insensato delirio di onnipotenza di Don Giovanni in fondo si rispecchia bene la tracotanza un po’ ridicola di noi uomini del Duemila, illusi di essere signori unici e incontrastati di noi stessi, padroni della vita e della morte, sovrani assoluti che a nulla e a nessuno devono rispondere se non al proprio ego. E in tal senso appare geniale il gioco di specchi che, riflettendo sul palcoscenico il loggione, i palchi e la platea, sbalzava sulla scena ognuno dei duemilatrenta spettatori presenti, come a dirgli «attento, Don Giovanni sei anche tu».Scene a parte, ancora non finisce di stupirci la modernità intramontabile della musica di Mozart e del libretto di Da Ponte, per nulla invecchiato dai due secoli che lo separano da noi, reso attuale proprio dal suo mettere in luce le miopie dell’uomo nel Settecento, che sono le stesse nel Duemila: «Viva la libertà», canta ostinato Don Giovanni, che intanto scivola verso l’abisso e non lo sa. Irriducibile nello scegliere sempre il male, è artefice di un destino che lo porterà alla dannazione, nonostante le molte occasioni di redenzione che gli vengono offerte fin sul limitare della Soglia, quando la statua di pietra del Commendatore gli chiede ancora di pentirsi («Cangia vita: è l’ultimo momento!») e Don Giovanni, accecato da se stesso, allontana la tentazione del Bene («No ch’io non mi pento, vanne lontan da me!»), per sprofondare all’inferno quando ormai è troppo tardi («Ah! Tempo più non v’è»). La rivoluzionaria rilettura scenografica di Carsen/Barenboim – se interpretata non in chiave assolutoria – fin qui dunque trascina, affascina e coinvolge, non permettendo a nessuno di chiamarsi fuori. Ma l’equilibrio si spezza quando Carsen, a sorpresa, stravolge il finale di Mozart. Nell’opera, infatti, il cavaliere, che ormai ha raggiunto l’infimo livello di ogni umana bassezza, viene trascinato nelle fiamme dell’eterna dannazione, e le sue vittime, che così hanno giustizia dal Cielo senza macchiarsi di vendetta, cantano la morale: questa è la fine di chi fa del male. Vincono i buoni, insomma, e i cattivi la pagano. Non secondo Carsen/Barenboim, però, per volere dei quali inaspettatamente, quando giustizia è fatta (credevamo) e il sipario sta per calare, Don Giovanni riappare in scena, integro, pronto a ricominciare, sigaretta in bocca e sorriso sprezzante, mentre a sprofondare sono le vittime, la cui morale ora è presentata come la parodia di una massa di ipocriti. «Don Giovanni non è un personaggio negativo, è pura energia, forza vitale, libertà.È un vincente», secondo il regista (ricordate Al Pacino-Lucifero nella scena finale dell’Avvocato del diavolo?), e la fascinazione del Male ci ha sedotti tutti, complice la bravura teatrale del baritono Peter Mattei. E allora facciamo un po’ di chiarezza: all’inizio dell’opera tenta uno stupro, non riuscendo ad arrivare in fondo uccide il padre della sua vittima, poco dopo tenta una seconda violenza carnale e, per godere meglio della sua nequizia, lo fa il giorno delle nozze della giovane. «Ha bisogno di essere amato, come tutti noi», lo ammira Barenboim. Ma in realtà l’amore è l’ultima cosa che chiede (e Donna Elvira, come tutte le donne, pensa ancora di poterlo cambiare...). Insomma, è vero che la stessa opera di Mozart è un 'dramma giocoso', ovvero stempera la tragedia nell’ironia e nel comico, ma dove stia il male e dove il bene è chiaro fin dal titolo, che per comodità siamo abituati ad abbreviare, ma che detto per esteso suona così: Il dissoluto punito. Ossia il Don Giovanni. Fugando ogni dubbio su chi mandare all’inferno.
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