giovedì 10 settembre 2015
Il "bilancio" del padre di Libera e Guppo Abele: «È inefficace e dannosa una politica che non parta dalla strada. Sono i poveri a fornirci le coordinate della speranza e del futuro».
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Il regalo dice di averlo «già ricevuto: sono gli incontri della mia vita, le persone che mi hanno arricchito, messo di fronte ai miei limiti e contraddizioni, reso una persona più attenta e spero migliore. Questo è il vero regalo, che dura da 70 anni». Sono i 70 anni che oggi compie don Luigi Ciotti, fondatore e presidente del Gruppo Abele e di Libera. Li festeggia nel suo paese d’origine, Pieve di Cadore, da dove la famiglia migrò a Torino. E dove lo raggiungiamo mentre sta salendo tra le Dolomiti accompagnato dagli uomini del Corpo forestale dello Stato, unico momento di relax nelle sue intense giornate in giro per l’Italia, sempre sotto l’attenta e discreta protezione della scorta, rafforzata lo scorso anno dopo le minacce di Totò Riina. Ma di questo non si parla. «Io sono solo un piccolo uomo che ce la mette tutta, innamorato di Dio e come cittadino italiano della Costituzione. Ho sempre avuto come riferimento il Vangelo e questo riferimento nella mia vita non è mai venuto meno. E anche nei momenti difficili di giudizi, di attacchi, di strumentalizzazioni mi sono sempre tenuto saldo al Vangelo, alla parola di Dio, scomoda, difficile, provocante». Parla di bilanci, di futuro, di giovani, di perdono, di Chiesa e di politica, di dolore, di Dio e molto di Papa Francesco. «In questi anni ho incontrato nella Chiesa delle belle testimonianze che per me sono state importanti nei momenti difficili. Figure che mi hanno aiutato, capito, ma anche molto fango che mi ha raggiunto. Quella di oggi è una Chiesa in cui mi ritrovo che dice cose chiare, che non fa giri di parole, che ha dei segni che riescono a parlare e sono comprensibili a tutti. Un Papa che parla del disastro ambientale e del disastro sociale, che si rivolge alla politica per chiedere conto di quello che deve fare ma che si rivolge anche a noi per chiedere conto di cosa noi dobbiamo fare. Questa è una Chiesa che sento dentro di me. Anche se c’è ancora chi dice "che bravo il Papa" e poi continua a fare come prima. Però sono convinto che il Padreterno darà una bella pedata anche a questi per rimettersi in gioco».Don Luigi, 70 anni: punto d’arrivo o di ripartenza?Di continuità. Il percorso della vita non è un fatto anagrafico. La vita ci chiede di vivere ogni giorno come se fosse il primo - aprendoci allo stupore del nuovo - e come se fosse l’ultimo, facendo di ogni istante una ricerca d’infinito. Con tutti i miei limiti ho sempre cercato di vivere così e, se il Padreterno vorrà, continuerò a farlo. Quale il bilancio come uomo e come prete?Faccio fatica a distinguere le due dimensioni. Ho sempre cercato di saldare Cielo e Terra e i miei riferimenti sono innanzitutto il Vangelo e poi la Costituzione. Nel Vangelo c’è molta "politica", laddove si denunciano i soprusi, le ingiustizie, le ipocrisie. E la Costituzione ha uno spirito evangelico quando afferma la dignità e l’uguaglianza di tutte le persone. I bilanci servono se sono onesti, se non sono "falsi in bilancio" morali, se sono occasioni di crescita, stimoli a fare di meglio e di più. Se a motivarli è la consapevolezza che a parlare, alla fine, saranno i fatti, i segni che hai lasciato nelle vite degli altri, il modo in cui hai sostenuto le loro speranze e difeso i loro diritti.Tanta strada fatta, quale il momento più faticoso?Ce ne sono stati tanti. Faticosi sono stati quei momenti in cui, confrontandomi con i miei limiti, ho dovuto dire "no" a una richiesta d’aiuto. Decisioni che mi hanno sempre lasciato uno strascico di dubbi, di amarezza, d’impotenza. E quale il ricordo più bello?Anche qui più d’uno. Belli e incancellabili tutti i momenti in cui ho visto le persone rialzarsi, ritrovare una dignità e un senso alla vita. Poi, certo, indimenticabile è l’incontro con Papa Francesco, il nostro prenderci per mano. Io così piccolo e lui così grande.In tutti questi anni ha incontrato tanto dolore, sofferenza, la morte, la violenza. Si è mai arrabbiato con Dio? Gli ha chiesto il perché? E come ha risposto?Gliel’ho chiesto tante volte. Di fronte a una bara, di fronte alla malattia, alla violenza, alla corruzione e alla diffamazione. E anch’io, come Elia, ho ricevuto la mia simbolica focaccia e brocca d’acqua: "Fermati, ristorati e riprendi ad attraversare la notte, il deserto". La fede, del resto, non è solo consolazione. È prima di tutto un cammino, una costruzione di giustizia, una ricerca di senso e di verità.Lei sa, perché lo tocca con mano, di essere un forte esempio per i giovani. Cosa vorrebbe riuscire a dire loro?Non sono e non mi sento un esempio. Posso solo dire che i giovani li sento "dentro" di me forse anche perché mi rivedo in loro. Ho iniziato che non avevo neanche vent’anni, nella Torino degli anni 60. Ho vissuto con coetanei figli della grande immigrazione dal sud, poveri, emarginati. Ho condiviso la loro quotidianità, colto la loro rabbia e le loro speranze, dormito nei vagoni dove si riparavano dal freddo invernale. Cosa dire ai giovani? Di non scoraggiarsi, di non perdere la speranza. Parlava ai giovani don Tonino Bello quando scrisse queste splendide parole: "Diventate la coscienza critica del mondo. Diventate sovversivi. Non fidatevi dei cristiani "autentici" che non incidono la crosta della civiltà. Fidatevi dei cristiani "autentici sovversivi" come San Francesco d’Assisi". Nel mio piccolo direi loro anche che non c’è libertà senza responsabilità. E che in questo vivere la libertà con gli altri e non a danno loro, anche un giovane può dare un forte contributo. Si può essere anagraficamente piccoli, ma grandi e generosi dentro.Ha incontrato tanti mafiosi. Sono irrecuperabili o come dice Papa Francesco anche per loro c’è il perdono?C’è un perdono per tutti. Ma al pentimento deve seguire una conversione, una vera trasformazione interiore. Nel Gruppo Abele abbiamo accolto persone che dopo aver commesso delitti gravi hanno deciso di risarcire il male commesso con l’impegno sociale. Dobbiamo offrire una chance a chi ha sbagliato, in accordo alle leggi e nel rispetto delle vittime e dei loro familiari. Nessuno è irrecuperabile. E non c’è peccato - ci ricorda il Papa - che Dio non possa perdonare.Per il suo compleanno è tornato nel suo paese. Cosa porta dentro delle sue origini?Sono tornato l’8 settembre per la festa patronale, per ricevere la cittadinanza onoraria, incontrare gruppi di giovani e celebrare una messa nella chiesa di Santa Maria Nascente, dove sono stato battezzato. Pieve sono le mie radici. Ringrazio Dio di avermi dato il privilegio di nascere tra queste montagne, le Dolomiti, una delle Sue meraviglie. Le montagne sono state il paesaggio emotivo e esistenziale della mia infanzia, un paesaggio che non ha mai smesso di nutrirmi, anche a distanza. Ogni volta che, tra mille impegni, riesco a strappare qualche ora per andare in montagna è come tornare a casa, alla parte più profonda di se stessi, dove ciascuno trova le ragioni essenziali del suo stare al mondo. E poi le montagne sono anche mamma e papà, la storia della mia famiglia e della mia gente.Il vescovo di Torino Michele Pellegrino che la ordinò sacerdote le disse "la tua parrocchia sarà la strada". Come è cambiata in questi anni la sua parrocchia?I cambiamenti della strada sono quelli della società. Nuovi volti, nuove storie, ma in fondo lo stesso bisogno di dignità, di riconoscimento, di partecipazione. Nelle attuali tragiche vicende dei migranti, dei profughi, non possiamo non riconoscere la nostra storia di ieri, immedesimarci in quella speranza di protezione, di porte aperte, di lavoro. Come non possiamo non riconoscere che su certi problemi è calato il silenzio o comandano gli slogan, le semplificazioni. Penso alle carceri, dimenticate e disumanizzate, o alla storia di tante donne e ragazze costrette a prostituirsi, diventate un problema di decoro, di "igiene sociale". È inefficace e dannosa una politica che non parta dalla strada. Sono i poveri a fornirci le coordinate della speranza e del futuro. E già padre Pellegrino è stato un grande profeta...Si dice che l’ottimista è chi pianta un ulivo a 90 anni. Cosa vorrebbe piantare oggi?Pianto - e continuerò a farlo finché ne avrò le forze - il seme della corresponsabilità, del "noi". Solo insieme possiamo costruire una società globale dove ci riconosciamo diversi come persone e uguali come cittadini.Cosa chiede alla Chiesa? Cosa alla politica?Alla politica di tornare alla sua vocazione di servizio alla collettività, di costruzione di bene comune, di progetto a lungo termine libero da interessi contingenti, ricerche di consenso, compromessi per conservare e perpetuare assetti di potere. Qualche segnale in questa direzione - tra ritardi, inerzie, demagogie - mi sembra di poterlo cogliere. Va incoraggiato, sostenuto. Io sono per la critica ma anche per la proposta e per l’impegno. Quanto alla Chiesa, Francesco sta indicando la strada. La Chiesa "in uscita", povera per i poveri, purificata dal potere e dallo sfarzo è quella che sogno da una vita, a cui sono fiero di appartenere. Francesco non parla del Vangelo: lo vive. E tocca i cuori di tutti perché è capace di saldare la Terra con il Cielo.
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