venerdì 25 settembre 2015
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​Caro direttore,ecco un altro problema di quest’anno scolastico: appartengo alla quota di docenti di religione cattolica (più o meno il trenta per cento) che ogni anno prende servizio il primo settembre con un contratto che scade al 31 agosto. Nei quattordici anni passati la prassi non aveva mai “bloccato” lo stipendio di settembre. Quest’anno, invece, su richiesta di un nostro sindacato, della quale non so quanti erano a conoscenza e nell’ignoranza degli istituti scolastici, la procedura è stata informatizzata e il pagamento dello stipendio subordinato alla registrazione del contratto. Gli intoppi e le lentezze sono facilmente immaginabili. Il problema è stato rilevato e sottoposto a varie autorità, ma di fatto, per me come per altri, a oggi – 23 settembre – lo stipendio non c’è. E non sappiamo se lo percepiremo entro il mese. La risposta “olimpica” della ragioneria territoriale – «Percepirete tutto in una volta» – avrebbe meritato una reazione scomposta della quale non sono capace per fede, educazione e necessità, visto che sullo stipendio, più o meno spartanamente, vivono cinque figli in età scolare (argomento buono per altra lettera…) e ai quali non è tanto facile spiegare la situazione. Per adesso la nonna, che vive da sola in un paesino lettone a un tiro di schioppo “metaforico” dalla Russia, ha acconsentito a prestarci qualcosa, laddove, però, nell’ethos locale “prestare” implica ancora necessariamente “restituire”. Forse – e Dio lo voglia – la storia si risolverà prima che la lettera vada in pagina, ma la preoccupazione e l’amarezza sono davvero grandi. Un saluto cordiale e grazie per il vostro lavoro.

Francesco Bianchi
 
La sua lettera, caro professor Bianchi, va in pagina con questa mia risposta due giorni dopo essere arrivata sulla mia scrivania (elettronica). Mi auguro di cuore, così come fa lei, che in queste quarantott’ore – e magari proprio mentre lo mettiamo in risalto – il problema informatico-burocratico sia già stato risolto e che, dunque, lei non sia ancora ingiustamente senza stipendio, costringendo la sua bella e grande famiglia (come altri nelle medesime condizioni) a fare i salti mortali – e a ricorrere a prestiti – per tirare avanti. L’ingiustizia non sta solo nel contrasto tra l’intoppo svuota-tasche e la supposta e purtroppo smentita maggiore velocità e trasparenza del procedimento informatizzato, ma anche, e clamorosamente, nella mancata corrispondenza tra il lavoro prestato (in modo ininterrotto) e la retribuzione congelata (da questo doloroso e incomprensibile “singhiozzo” settembrino). Ed è aggravata dal fatto che il datore di lavoro sia lo Stato, cioè l’Ente regolatore per eccellenza, che dovrebbe garantire il rispetto non appena formale, ma davvero sostanziale, dei legittimi diritti di tutti i cittadini lavoratori. Dipendenti statali compresi. So che qualche lettore a questo punto sorriderà amaramente, soprattutto se è alle prese – da dipendente pubblico – con problemi simili a questi su tutta o anche solo su una parte della propria retribuzione. Penso, per esempio, ai dipendenti del ministero dei Beni e delle Attività culturali che hanno atteso dieci mesi, dal novembre 2014 sino ai giorni scorsi segnati dallo “scandalo al sole” del Colosseo chiuso per assemblea sindacale e dalle polemiche e misure normative conseguenti, per riuscire a vedere finalmente in busta paga “piccole cifre” dovute (100-150 euro netti mensili) che in realtà, come la gente normale sa bene, piccole non sono affatto e, in moltissimi casi, fanno la differenza tra una vita decorosa e più serena e la mortificante difficoltà a far quadrare il bilancio familiare. Spero che – tra le tante «svolte buone» di cui questo Paese ha bisogno e che l’attuale presidente del Consiglio ha messo in cantiere – ci sia anche quella dell’esemplare rispetto verso chi lavora per lo Stato, nei suoi diversi servizi e articolazioni. Un rispetto che deve naturalmente specchiarsi nel rispetto del proprio lavoro da parte di chi insegna o svolge altre funzioni nell’interesse della comunità dei cittadini. Sono certo che nel suo caso, caro amico, è così, e il suo stesso modo pacato e forte di reagire lo dimostra. Mi faccia sapere come finisce questa storia che nessuno avrebbe dovuto cominciare a scrivere sulla pelle sua e di tanti altri. Un saluto cordiale a lei, a sua moglie, ai suoi figli e ai suoi studenti.
Marco Tarquinio
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