mercoledì 22 ottobre 2014
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Caro direttore,
il doppio disastro di Genova impone a tutti noi italiani di una certa età talune riflessioni di natura morale. Per la ennesima volta abbiamo sentito dire che se saranno accertate responsabilità, i colpevoli saranno puniti. E se fosse proprio questa "ricerca delle responsabilità" a ritardare e persino impedire la "ricerca della soluzione"? Parafrasando un noto proverbio, mentre giudici e avvocati disquisiscono sulla correttezza formale delle gare di appalto per opere pubbliche essenziali per la sicurezza comune, i cittadini muoiono e le città vengono inondate… A Genova l’abbiamo già visto accadere due volte. Cercare il colpevole non è la stessa cosa che non cercare la soluzione. Se qualcuno ha lasciato le chiavi dentro casa, è più importante cercare un fabbro per tentare di aprire la porta oppure tentare di scoprire il colpevole cui far pagare i danni? La sentenza giusta e rapida, "rovina" la relazione e non rimette le cose come stavano prima, al massimo fa ottenere una somma di danaro spostando sulla parte vittoriosa la cura e il rischio di rimettere le cose come stavano prima. Ma se intanto le cose vanno male? Quanto costa economicamente e socialmente tutto questo a livello di sistema Paese? Non si può confondere l’allenatore dei calcio che studia le tecniche per fare gol con l’arbitro che controlla la regolarità del comportamento dei giocatori: studiare il regolamento non aiuta a fare gol, a ottenere risultati. Valutare ex post non è la stessa cosa che non pensarci prima.  Decidere significa operare delle scelte in via preventiva e vigilare su chi deve operare tali scelte. Decidere significa essere competenti e assumersi la responsabilità e il potere di usare i criteri più appropriati adeguando i mezzi ai fini. Non prevedere i rapporti di causa ed effetto porta a non decidere e il sistema Italia ora ha bisogno di rapide decisioni strategiche. È in gioco la stessa la convivenza civile, per non dire la sopravvivenza, altrimenti saranno soprattutto le nuove generazioni a subire gli effetti delle nostre attuali non-decisioni.
Tutto questo al di là dell’altruismo e dell’egoismo.
 
Mario Quinto - Già docente di negoziazione e mediazione all’Università Gregoriana e alla Università Roma Tre
È un punto nodale quello che lei, caro professor Quinto, tocca con grande finezza e comprensibile passione civile. Non faccio fatica a seguirla nelle sue argomentazioni e trovo convincente il suo appello a non concentrare tutte le energie sulla «fase punitiva» del dopo-distrastri (quella che retribuisce con condanne e sanzioni i responsabili del male patito dai cittadini e dal territorio) per mettere decisamente testa e risorse sulla «fase costruttiva» (quella che risarcisce una popolazione e un ambiente urbano o naturale con interventi di ripristino e di prevenzione). Condivido totalmente, poi, l’appello a farla finita con le non-decisioni amministrative, spesso generate da una mortificante paralisi burocratica. Questo lasciar correre indifferente e cialtrone, che conosciamo purtroppo bene quasi in ogni lembo del nostro Paese, devasta e uccide luoghi e spirito civico persino più di alluvioni e frane. Ma non mi sento di far mia la logica dell’«aut aut» alla quale lei, caro professore, mi pare in questo caso inclinare un po’ troppo. Lei sembra dire: in Italia va così, o si cercano le responsabilità dei dissesti o si cercano le soluzioni. So quanta fatica costa in questo nostra strano e straordinario Paese fare bene più di una cosa alla volta, e tuttavia – a costo di passare per sognatore – preferisco sempre la logica dell’«et et». Infatti, l’impegno per fare giustizia e il lavoro per rimuovere le cause di un male non sono alternativi, sono complementari e sono entrambi necessarissimi. Però, lo ammetto, se proprio dovessi essere costretto a scegliere una priorità, neanche io avrei dubbi e, proprio come lei, direi che è meglio realizzare una giusta ed efficace soluzione per evitare – a Genova e altrove – nuove sofferenze e morti piuttosto che veder sanzionato chi ha causato o complicato o lasciato crescere un problema che funesta la vita della gente. Ma insisto: meglio, infinitamente meglio, l’«et et». Impossibile? Ma via... Forse oggi suonerà più che mai come uno slogan nostalgico e un po’ ambiguo, ma a me così com’è, nudo e crudo, piace e sprona ancora: siamo realisti, esigiamo l’impossibile. Perché tutto ha un limite, compresa la scienza, la tecnica e la giustizia degli uomini, ma la dedizione al bene comune no.
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