
Ansa
Una coda silenziosa si snoda davanti alla questura. Volti stanchi, sguardi pazienti. C’è chi ha lasciato il lavoro, chi ha saltato la scuola, chi ha portato con sé un figlio piccolo. Tutti in attesa di un foglio che permetta di restare, studiare, curare, lavorare. In quella coda c’è la vita di chi già appartiene a questo Paese ma deve ancora dimostrarlo ogni giorno. Il quinto quesito del referendum dell’8 e 9 giugno riguarda un aspetto fondamentale del nostro vivere civile: rendere più rapido l’accesso alla cittadinanza, dimezzando i tempi per chi vive stabilmente in Italia. Secondo la normativa attuale, i cittadini stranieri devono attendere dieci anni prima di poter fare richiesta della cittadinanza. Si tratta di una delle tempistiche più lunghe tra quelle previste dai Paesi europei, ulteriormente rallentata da un macchinoso apparato burocratico che di fatto porta i cittadini stranieri a ottenere la cittadinanza non prima di quindici anni di residenza in Italia. Ridurre i tempi per la richiesta da dieci a cinque anni significa alleggerire pratiche infinite, incerte e costose che di fatto precarizzano l’esistenza di circa cinque milioni di persone.
La questione in gioco è più concreta che simbolica. Non si tratta di aprire indiscriminatamente le frontiere a chiunque arrivi sul suolo italiano, ma di stabilizzare e riconoscere diritti fondamentali (e relativi doveri) a persone di ogni età inserite da tempo nel nostro Paese: adulti lavoratori, famiglie, bambini e ragazzi che studiano nelle nostre scuole. Accelerare i tempi per l’ottenimento della cittadinanza italiana sarebbe una ventata di aria fresca per i due milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici stranieri attivi nel nostro Paese, tra i quali vale la pena nominare le circa 800.000 persone che si prendono cura giorno e notte della componente più anziana e fragile della popolazione (dati Inps, 2023). Andare a votare, in fondo, significa sostenere quello che è attualmente il nostro più solido sistema di welfare.
Se guardiamo ai più giovani, dimezzare i tempi per la cittadinanza significherebbe dare stabilità e fiducia a quel milione e mezzo di alunni che studiano nelle nostre scuole. Le ricerche da tempo ci dicono che ottenere la cittadinanza italiana ha un impatto positivo sul successo scolastico: meno giorni di scuola persi, minor senso di esclusione, più stabilità e tranquillità famigliare, più successo a scuola. È un’equazione abbastanza semplice da comprendere e molto nota a insegnanti ed educatori. Circa la metà dei possibili beneficiari del buon esito (e attuazione) di questo referendum è costituito proprio da minori, secondo una proiezione di fondazione Ismu (2024). Bambini e bambine delle nostre scuole dell’infanzia, ragazzi e ragazze che frequentano scuole, oratori, centri sportivi e spazi di socialità insieme ai coetanei autoctoni, e che secondo il sistema normativo vigente possono chiedere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno. Nati e cresciuti qui, spesso scoprono a un certo punto del loro percorso di crescita, con grande stupore e sgomento, di essere considerati stranieri in patria.
È bene ricordare che senza la loro presenza, molte scuole di piccoli comuni ma anche delle grandi città avrebbero già chiuso i battenti, in tempi di inverno demografico. Chi ha raggiunto faticosamente il numero minimo per tenere aperta una scuola dell’infanzia di un piccolo paese di provincia o una pluriclasse di un comune di montagna sa bene quanto dalla presenza di questi bambini e bambine dipenda il futuro delle nostre comunità. Il dibattito italiano sulla cittadinanza si è concentrato su una dimensione simbolica e di principio, volta a definire chi merita di essere un cittadino italiano. Tra chi sostiene un’italianità ereditata per via famigliare e chi invece pensa alla cittadinanza come percorso da condividere, in molti anni si è faticato a trovare un terreno di incontro. Può aiutarci pensare ai singoli volti dei compagni di scuola dei nostri figli, a chi si prende cura ogni giorno dei nostri anziani, ai nostri colleghi di lavoro o dipendenti, alle famiglie con le quali condividiamo la panca in chiesa. Sembrerà allora quasi ovvio esprimere per tutti loro il nostro “sì”: un sì per un sistema di welfare più stabile e sereno, per un mondo del lavoro più giusto e vitale, per una scuola ancora capace di immaginare il futuro.