Le parole che gli inglesi non hanno usato e quelle giuste per cambiare il mondo
sabato 26 ottobre 2019

Caro direttore,
ho molto apprezzato che le autorità inglesi non abbiano parlato in nessuno dei comunicati diramati a caldo, mercoledì 23 ottobre, della nazionalità dei 39 morti in un container caricato sul camion che li ha trasportati irregolarmente per un pezzo d’Europa e sino in Gran Bretagna. Hanno parlato solo di persone. Quando si specifica prima di tutto la nazionalità, nella nostra testa incaselliamo il dato, e gli attribuiamo un giudizio più o meno conscio. Parlando di persone, quel giudizio non può essere espresso, e la notizia assume un altro e davvero umano significato. Perché le nostre tv non fanno lo stesso?
Eugenio Sgarbi


Già, perché quando a morire tragicamente sono stranieri poveri e senza carte in regola in Italia (ma anche altrove) si tende a catalogarli e non si parla con dolore e rispetto di persone morte? Perché non si dà conto semplicemente di quelle vite umane spezzate? Non c’è dubbio, caro amico, che lei solleva un gran tema, tocca un punto decisivo per capire quanto la nostra civiltà sia ancora figlia di un umanesimo degno di questo nome, quanto sia ancora sorretta da un respiro cristiano o quanto la deriva individual-egoistica ci abbia portato lontano da quello sguardo compassionevole e da un patrimonio di valori preziosi come l’aria. Lei e io la pensiamo alla stessa maniera. E infatti – in questi anni di impazzimento delle parole e dei gesti nei confronti degli “altri” e dei “diversi” – sulle pagine di questo giornale non abbiamo certo fatto mistero di considerare sbagliata e distorcente la pretesa di qualificare primariamente e immediatamente una uomo o una donna, o un gruppo di donne e uomini, per la nazionalità vera o presunta o per l’etnia desunta dall’aspetto fisico o per la categoria sociale reale o percepita.

Prima d’ogni altra considerazione e di ogni specifico riconoscimento ciascuno di noi è un essere umano, portatore o portatrice – in quanto tale – di una dignità non negabile e non negoziabile. Cioè dentro il mondo eppure fuori dal mercato del mondo. Certo, la storia di ognuno, il suo volto e il suo nome sono altrettanto importanti. Ma è la vita umana in sé a essere preziosa. Per questo la vita degli uomini e delle donne, in ogni sua fase e condizione, non è e non deve diventare oggetto di classificazione, di calcolo, di commercio. Ecco perché le parole scelte dalle autorità britanniche per annunciare la scoperta della terribile morte di 39 persone entrate irregolarmente nel Regno Unito sono state giuste, e sono risuonate in modo persino esemplare. Eppure, l’abbiamo capito sempre meglio nei giorni seguenti, sulla base dei tratti somatici sarebbe stato facile parlare sin da subito di “orientali” o di “asiatici”. Non è stato fatto, e lei fa bene a rimarcarlo. Conta, ovvio, sapere anche i nomi e cognomi di quelle persone, perché chi li ha amati possa piangerli, perché chi ha coscienza non dimentichi e perché chi ha fede possa pregare (ma noi sappiamo che Dio conosce già il nome di tutti loro e di tutti noi, e che nessuna preghiera arriva mai anonima a destinazione), perché chi ha cuore possa commuoversi e muoversi, magari, all’impegno civile e politico perché nessuno debba più morire così. Sto pensando, l’avrà già capito lei e l’avranno colto altri amici lettori, all’effetto che ci ha fatto leggere le ultime parole di Pham, la giovane donna vietnamita che ha affidato il suo estremo grido d’agonia e d’amore per i genitori a sms inviati dal container della morte.
Ma c’è di più e dell’altro: le autorità inglesi che, pure, non sono tenere con chi cerca di entrare fuori dalla legge in Gran Bretagna, hanno parlato di persone e hanno evitato il termine “migranti”, categoria nella quale in Italia (e non solo) larga parte del sistema politico-mediatico e pezzi troppo grandi di opinione pubblica iscrivono d’ufficio tutti coloro che sono poveri e non sono nati sulla terra nella quale già si trovano o verso la quale vanno. I ricchi o anche solo i cittadini di Paesi ricchi non sono mai “migranti”. Per questo faccio ormai fatica a usare questo termine. Gli uomini e le donne non devono essere chiusi in “scatole” come questa, che non dicono nulla di loro, ma tutt’al più dicono di qualcosa – il movimento migratorio, l’umano movimento sulla faccia della terra – che hanno fatto e subìto e sofferto in un mondo costellato di ingiustizie, di strade spezzate, di sospetti e di barriere.
Non chieda a me perché nella nostra Italia abbiamo cominciato a usare così male le parole sino a renderle brutte e taglienti e perché questo accada soprattutto in tv, facendo eco sistematica al peggior modo di dire e di fare dei più scriteriati arruffapopolo. Non voglio giudicare nessuno. Ma posso e voglio confessare il mio disagio, e desidero confermare che si può fare altrimenti, che si può restare umani e, perciò, stare e restare con le parole accanto alle persone e dentro una legalità che non è mai fine a se stessa. Posso e voglio dirle che proprio per tale motivo ci si può, magari, ritrovare addosso l’etichetta degli “schierati”, dei “buonisti”, degli “immigrazionisti”... Follie deliberate e cattive di gente che ama la polemica e i frutti che può dare e che non ama gli esseri umani. Per me, da tempo, non è più “un” problema, certo non è “il” problema. Il problema è che i miei concittadini non si facciano incantare dai signori delle maledizioni. Per questo non mi stanco di ripetere che c’è una sola parte che tutti – comunque la pensino, che credano in Cristo o credano diversamente o non credano affatto – dovrebbero sentire come propria: quella della nostra comune umanità, la stessa per cui Cristo è morto e resuscitato e continua a morire in ogni vittima innocente e a resuscitare e salvarci in ogni atto di giustizia...
E nell’alfabeto comune dell’umanità una vittima è una vittima, un lutto è un lutto, e altri trentanove morti atroci e del tutto evitabili (se le strade delle migrazioni fossero ben tracciate e illuminate e giustamente regolate) sono una ferita in mezzo al cuore e una tremenda sconfitta. Che queste persone muoiano cercando di solcare su fragili scafi il nostro mare o che, dentro bare di metallo, percorrano soffocando il duro asfalto del Vecchio Continente, l’essenziale è che ognuno di loro è un essere umano, con un nome, una storia, e che quella vita finisca straziata e persa perché non la si vuole vedere e riconoscere alla stessa altezza della nostra è uno scandalo che grida nelle coscienze e sino a Dio. Sono importanti le parole che gli inglesi non hanno usato, ma ancora di più lo sono e lo saranno quelle che noi dobbiamo usare, e trasformare in atti, per cambiare questo mondo.
P.S. Qualcuno, caro dottor Sgarbi, dice e scrive che mettere nero su bianco pensieri come i suoi e come quelli che ho appena articolato sarebbe la prova provata della resa dei cattolici a un umanitarismo inerme e senza qualità, una “resa al mondo”, altri – proclamandosi buoni credenti – arrivano addirittura a sostenere che una tale sensibilità sarebbe sostanzialmente “atea”: ebbene, lo ammetto, tali argomenti mi suscitano pena. Possono maneggiarli solo quelli che guardano ma non vedono le cose che continuiamo a combinare su questa terra e non sanno più dove sta il cielo. Possono scagliarli solo quelli che stanno dimenticando che cosa significa stare sulla terra che ci è affidata e sotto il cielo di Dio per noi che, sentendo il peso e la bellezza di ogni parola, osiamo pregare il Padre Nostro.

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