Quando questa domenica pomeriggio il Papa entrerà nel Tempio maggiore di Roma, a sei anni esatti dalla precedente presenza di Benedetto XVI (17 gennaio 2010), e 30 anni dopo la storica prima volta di Giovanni Paolo II, la sua sarà la quinta volta di un Papa in una sinagoga. Alle tre visite romane, infatti, bisogna aggiungerne altre due. Quelle che papa Ratzinger compì nel 2005 a Colonia e nel 2008 a New York, quasi a scandire come altrettante pietre miliari il cammino dei ritrovati rapporti di amicizia tra le due comunità religiose. Cinque visite in trent’anni, nessuna nei circa duemila precedenti. La prova più evidente di una stagione senza eguali nella storia, che annovera anche tre viaggi in Terra Santa (Giovanni Paolo II nel 2000, Benedetto XVI nel 2009 e Francesco nel 2014), le visite ad Auschwitz di papa Wojtyla (1979) e di papa Ratzinger (2006), gesti epocali come i messaggi infilati dai tre Papi tra le pietre del Muro Occidentale a Gerusalemme, oltre alla frequenza dei contatti, degli incontri e delle udienze e alla ferma irrevocabile e ripetuta condanna di ogni forma di antisemitismo e antigiudaismo.
Come si colloca, dunque, questa nuova visita nello scenario complessivo dei tre decenni appena trascorsi? E che cosa aggiunge ai precedenti appuntamenti? La prima tentazione da evitare è quella di considerare ormai quasi una 'consuetudine' l’ingresso di un successore di Pietro nel luogo di preghiera degli ebrei. Le visite dei Papi alle sinagoghe conservano infatti intatto il loro valore di 'primizia', anche perché confermano che il passo storico effettuato da Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986 non resta un atto unico, ma è semmai l’inizio di un percorso irreversibile in cui tutta la Chiesa è impegnata. In un certo senso, si potrebbe dire, questi momenti affatto speciali ci danno il polso della situazione, aiutano cioè a 'fotografare' lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che il 17 gennaio di ogni anno vive la sua celebrazione attraverso una Giornata particolare. La storia delle visite, a partire da quella prima volta in assoluto di 30 anni fa, lo conferma. L’abbraccio di Giovanni Paolo II al rabbino Elio Toaff che lo accolse sulla porta del Tempio era il segno di una nuova storia che iniziava. Il saluto dello stesso Toaff, che parlò di «gesto destinato a passare alla storia», fu profetico. E le parole pronunciate dal Papa nel suo discorso divennero una sorta di bussola per il prosieguo del cammino: «La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori». Era la traduzione in termini pratici della
Nostra Aetate, la dichiarazione conciliare che segnò il primo punto di svolta nei rapporti con l’ebraismo, sulla scia dell’esempio di san Giovanni XXIII, il pontefice che nel 1959 si fermò davanti alla Sinagoga con gesto benedicente e, ancor più, fece eliminare l’espressione «perfidi giudei» dalla preghiera del venerdì santo. Ma era, quella del Pontefice, soprattutto una dichiarazione di affetto e un invito ad «approfondire il dialogo in lealtà e amicizia, nel rispetto delle intime convinzioni degli uni e degli altri, prendendo come base fondamentale gli elementi della rivelazione che abbiamo in comune, come grande patrimonio spirituale». Invito che avrebbe prodotto effetti duraturi, ben oltre la morte di papa Wojtyla. Benedetto XVI, infatti, ne riprese pienamente l’eredità e tra i primi atti del suo pontificato inserì la visita alla sinagoga di Colonia, città nella quale si era recato per la XX Giornata mondiale della Gioventù. Non deve sfuggire la molteplicità di significati di quel gesto. Il papa tedesco in una sinagoga tedesca, distrutta dai nazisti nella Notte dei Cristalli del 1938. Il papa che da cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (si pensi alla dichiarazione
Dominus Iesus del 2000) era stato accusato di aver riportato indietro le lancette del dialogo interreligioso. Il Papa che invece in quella occasione dichiarò senza mezzi termini: «Voglio confermare anche in questa circostanza che con grande vigore intendo continuare il cammino verso il miglioramento dei rapporti e dell’amicizia con il popolo ebraico, in cui Papa Giovanni Paolo II ha fatto passi decisivi». Proposito che, come sappiamo, avrebbe mantenuto durante tutto il pontificato, pur contrassegnato da alcuni incidenti di percorso come la remissione della scomunica al vescovo lefebvriano Richard Williamson, di cui il papa non conosceva le posizioni revisioniste sulla
Shoah. Da questo punto di vista le altre due visite alle sinagoghe di New York e di Roma – giunte rispettivamente a poche settimane di distanza da episodi di incomprensione con il mondo ebraico (la riformulazione della preghiera del Venerdì Santo – Ratzinger stesso aveva eliminato il riferimento all’«accecamento» e al «velo dal cuore» – e il processo di beatificazione di Pio XII, del quale il 19 dicembre 2009 vennero dichiarate le virtù eroiche) – hanno il valore di altrettanti messaggi di continuità nel cammino, anche al di là delle divergenze su singoli aspetti. Il 17 gennaio 2010, in particolare, papa Ratzinger ribadisce al rabbino capo Riccardo Di Segni (successore di Toaff, pure presente a quest’altro appuntamento con la storia) e alla comunità ebraica romana, che nuovamente spalanca le porte del Tempio maggiore a un pontefice, l’irrevocabilità del cammino di amicizia tra ebrei e cattolici intrapreso con il Concilio Vaticano II. Benedetto XVI rievoca la tragedia della
Shoah (quella stessa per cui nel 2006 ad Auschwitz aveva rivolto quasi un 'rimprovero' a Dio: «Signore, perché hai potuto tollerare tutto questo?»), auspica che possano sempre essere sanate le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. E poi indica, tra i campi di collaborazione, il riconoscimento dell’unico Dio «contro la tentazione di costruirsi altri idoli».
Ora tocca a papa Francesco. Che nel rapporto con gli ebrei si è già distinto, facendo tesoro della sua amicizia personale con il rabbino argentino Abraham Skorka, non caso voluto al suo fianco durante il viaggio in Terra Santa. E proprio secondo Skorka, che ha firmato con l’allora cardinale Bergoglio un libro di dialoghi e che il Papa abbracciò davanti al Muro Occidentale, ciò che contraddistingue l’apporto di Francesco al rapporto con gli ebrei è, come ha detto ieri in un’intervista a
Vatican Insider, «l’appello ad approfondire il dialogo tramite lo studio esegetico e teologico, e allo stesso tempo rafforzare gli sforzi per un lavoro comune a beneficio di un mondo più giusto ed equo». Ecco, dunque, una delle chiavi di lettura di questa terza visita di un papa alla sinagoga romana. Il rapporto ebraico-cristiano si approfondisce sempre più, cancella anche qualche malinteso teologico (come fa ad esempio il documento
Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili, pubblicato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo in occasione del 50° Anniversario della
Nostra aetate) e in definitiva lancia al mondo un messaggio controcorrente: credenti di diverse religioni possono rispettarsi, vivere in pace e contribuire insieme al bene comune.