Deportazioni ingiustificabili
giovedì 16 giugno 2022

Cattive notizie per Boris Johnson e per il suo controverso progetto di deportare in Ruanda i richiedenti asilo approdati via mare nel Regno Unito. Il primo volo verso Kigali alla fine è rimasto a terra. Il governo britannico era riuscito a far passare la sua controversa linea politica presso i tribunali del proprio Paese, ma con un colpo di scena dell’ultimo minuto, un ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti umani ha bloccato la partenza di un profugo iracheno. Partenza solo rinviata, con una motivazione procedurale. La Corte ha peraltro espresso anche rilievi più incisivi, osservando che il Ruanda non è soggetto all’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Si tratta del classico granello di sabbia che ha inceppato il dispositivo apparentemente inesorabile della spedizione in un lontano Paese africano di profughi che con esso non hanno nessun rapporto. Già l’Alta Corte di giustizia britannica, pur non fermando il progetto di Johnson, aveva stigmatizzato la rappresentazione del Ruanda come Paese terzo sicuro e la mancanza di garanzie per il ritorno dei rifugiati, in caso di accettazione della domanda di asilo. Inoltre il volo della vergogna si era già parecchio svuotato. Deliberando sui casi singoli, le Corti d’appello britanniche e la Corte di Strasburgo avevano già fatto scendere diversi di questi passeggeri loro malgrado: di 130 che si volevano confinare in Ruanda, alla fine ne erano rimasti a bordo sette od otto. Farli partire avrebbe comportato costi che neppure l’ideologia antirifugiati è riuscita a giustificare.

Nel frattempo non solo Onu e Ong hanno criticato il governo britannico, ma anche la Chiesa anglicana, a volte etichettata come filo-conservatrice, ha alzato la voce: Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, ha parlato di una «pratica contro Dio», e una dichiarazione congiunta dei vescovi ha stigmatizzato «una politica immorale che fa vergognare la Gran Bretagna». Ancora una volta, le autorità religiose si sono schierate contro politiche disumane.

La retorica di Boris Johnson può forse servire a rinsaldare un consenso interno vacillante, dopo lo scandalo del Partygate, ma lo ha di fatto isolato. Parla di immigrati illegali, ma in pratica non esistono vie legali per raggiungere il Regno Unito e domandare asilo. Dice di lottare contro i trafficanti di esseri umani, ma chi cerca asilo non ha accesso ai normali mezzi di trasporto.

Lamenta un aumento degli arrivi dal mare (un po’ più di 10mila quest’anno), ma lo fa in un momento in cui l’Europa ha accolto oltre cinque milioni di profughi ucraini.

È arrivato ad accusare i legali che difendono i rifugiati di «incoraggiar il lavoro delle bande criminali», ma si è guadagnato la riprovazione dei professionisti del diritto. Parla di deterrenza verso nuovi arrivi - forse il vero obiettivo -, ma questo significa scaricare su altri l’onere dell’accoglienza. Il deragliamento del piano di deportazione britannico offre tre insegnamenti. Primo, conferma che solo delle gravi forzature in materia di diritti umani possono aprire la strada al rifiuto di accogliere chi fugge da guerre e persecuzioni.

Secondo, che gli immigrati e i rifugiati sono ostaggi di battaglie politiche e mediatiche che ne ingigantiscono numeri e problemi, per ragioni di convenienza che poco hanno a che fare con sicurezza e protezione dei cittadini. Terzo, che occorre una mobilitazione della società civile per scongiurare lo scempio dei diritti umani: come l’Europa sta dando al mondo una prova di umanità nell’accoglienza dei profughi ucraini, allo stesso modo è in grado di offrirla quando si tratta di altri profughi e di altre guerre.

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