Demagogia? No grazie
domenica 16 gennaio 2022

È quando spalanca la porta della cucina e piomba scomposta a tavola che l’inflazione diventa il primo piatto nel menù dell’economia e della politica. Quest’anno sarà davvero il piatto forte, nonché il più difficile da digerire. Un po’ perché nell’ultimo decennio ci eravamo disabituati al suo sapore, ma soprattutto per alcune caratteristiche indigeste del cosiddetto 'caroprezzi'.

La prima è che di solito l’inflazione ci coglie di sorpresa. Da mesi è il cruccio delle Banche centrali, certo, un conto è tuttavia percepirla come percentuale o grafico sul 'cruscotto' dei tecnici, altra cosa è andare al supermercato e scoprire che mezze penne e insalata costano il 40% di più. Una volta entrata nel carrello della spesa o dopo aver surriscaldato la bolletta della luce – beni essenziali, non voluttuari o magari di lusso –, l’inflazione si presenta come una tassa occulta e per di più regressiva: il rincaro colpisce in misura più che proporzionale i redditi bassi e quelli fissi, da quando gli scivolosi meccanismi di indicizzazione dei salari ai prezzi sono stati smantellati.

Chi meno ha, cioè, più paga conti che lievitano aumentando così le disuguaglianze. L’inflazione, inoltre, manco fosse il sale, si abbina con quasi tutte le altre pietanze della politica economica: dai consumi ai risparmi, dai conti pubblici (un pizzico d’inflazione aiuta ad aumentare i Pil nominale e quindi a ridurre il rapporto debito-Pil) agli stipendi e quindi al mercato del lavoro.

Non a caso il mandato fondante delle Banche centrali è tenere i prezzi sotto controllo, e in questo campo hanno maturato negli ultimi cinquant’anni una grande esperienza nell’utilizzo degli attrezzi di politica monetaria – la leva dei tassi e ancor più la capacità di indirizzare le aspettative attraverso parole calibrate –, guadagnando così parecchia credibilità. Poi è arrivato il Covid. E ha reso tutto decisamente più complicato, a partire dalla capacità di fare previsioni. Solo pochi mesi fa, a marzo, gli analisti stimavano l’inflazione americana sotto i due punti percentuali, appena sei mesi dopo ha raggiunto il 7%. Nessuno, allo stesso modo, si è rivelato in grado, a inizio 2021, di prevedere che il Pil dell’Italia sarebbe cresciuto oltre il 6%.

Fino a ieri tanto Jerome Powell, numero uno della Federal Reserve, quanto Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, consideravano l’inflazione 'transitoria'. Qualche settimana fa, però, il primo ha cambiato idea. Chi prevede meglio? La fiammata dei prezzi del gas e i rincari della logistica (come spiega oggi Leonardo Becchetti, ndr) contano parecchio nel rendere tutto più confuso e a far precipitare e distorcere anche qualche giudizio. Ma l’impressione è che ad aver cambiato pelle con la pandemia non sia tanto l’inflazione, quanto la struttura stessa dell’economia e delle nostre società. A cambiare, cioè, con una rapidità impressionante e così accelerata da renderlo sfuggente, è il mondo in cui viviamo. Le variabili socio-sanitarie, per dire, sono diventate cruciali.

La catene globali della produzione si stanno riconfigurando, così come la logistica macro e micro (di quartiere), e tutto ciò mentre la digitalizzazione stravolge sia i processi sia i consumi e la transizione energetica si fa impellente. Per tornare all’inflazione, che impatto avranno ad esempio sugli stipendi le ondate di dimissioni volontarie – il fenomeno della Great Resignation che sta travolgendo tanti Paesi avanzati – o il record di posti vacanti appena registrato anche in Italia per ragioni non solo demografiche?

Tali poderosi movimenti di faglia potrebbero spiegare perché sia diventato così difficile dare stabilità ai prezzi: i banchieri centrali non riescono più a modellare, con le loro parole performanti, aspettative che mutano tanto rapidamente quanto rapidamente cambia ciò che ci circonda. E suggeriscono altresì, simili rivoluzioni, quanto sia destinata ad aumentare, dato il contesto, la responsabilità delle forze politiche quando si parla di prezzi, energia, lavoro agile o ciclofattorini intesi come rappresentanti della Gig economy: fare demagogia o rubare consenso sul piatto di pasta sarà d’ora in avanti sempre più irresponsabile per chi ci prova e penalizzante per tutti coloro ai quali, e sono in molti, pagare quasi il doppio gli spaghetti e più del doppio la corrente pesa tanto, pesa davvero.

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