martedì 25 maggio 2021
Ambiente, cultura, mediazione politica. Dopo il coinvolgimento in teatri di conflitto come Yemen e Libia, ora Abu Dhabi vuole riposizionarsi agli occhi dell’Occidente
Una veduta di Abu Dhabi

Una veduta di Abu Dhabi - Wikipedia common images

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Meno basi militari e soldati all’estero, più investimenti in cooperazione e nuove tecnologie: la politica estera degli Emirati Arabi Uniti (Eau) rivaluta, adesso, l’altro volto, quello che somiglia meno alla 'muscolare' Abu Dhabi e più alla 'mediatrice' Dubai. Dopo settimane di silenzio, gli Emirati si sono offerti come facilitatori tra israeliani e palestinesi, nel corso di una telefonata fra Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi, e il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi. Tra le cause di questa sterzata, l’impatto economico della pandemia, calcoli di politica regionale e l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Dunque, meno rischi geopolitici e d’immagine, più storie positive per riguadagnare 'punti' agli occhi di cancellerie e media internazionali, dopo il controverso coinvolgimento in teatri di conflitto come Yemen e Libia.

Insomma, la 'piccola Sparta' del Medio Oriente, trasformatasi nel Paese più militarmente capace nonché influente della regione, intercetta subito il sentimento del tempo. In epoca di incertezze da coronavirus, il potere soft, declinato in ricerca e sviluppo, cultura, stile di vita, ambiente è più facilmente gestibile – nonché politicamente vantaggioso – di quello militare. Tattica o strategia? Probabilmente tattica. La flessibilità fa parte dell’approccio degli Emirati (federazione di sette Stati capeggiata da Abu Dhabi), alla politica. Molto prima dell’Arabia Saudita furono infatti gli emiratini a indicare, per primi, l’orizzonte 'oltre il petrolio': ovvero la diversificazione economica, anche grazie al potere commerciale, portuale e aereo di Dubai, pioniere della globalizzazione nel mondo arabo.

Dopo le rivolte arabe del 2011, gli Emirati hanno inaugurato una politica estera ambiziosa e iperattiva, talvolta spregiudicata, in cui la sfera militare è divenuta dominante. Gli emiratini hanno inviato soldati in Yemen, sostenuto le milizie di Khalifa Haftar in Libia, partecipato alla coalizione globale contro il sedicente Stato Islamico e proseguito al fianco della Nato l’impegno militare in Afghanistan. Ma Abu Dhabi ha anche fornito un determinante appoggio finanziario e politico all’Egitto del Generale Al Sisi, nonché alla giunta militare che ha preso il controllo del Sudan dopo la rivolta contro Al Bashir. Tali scelte hanno accresciuto ruolo e potere geopolitico degli Eau, ma ne hanno anche logorato l’immagine: un calcolo costibenefici non più sostenibile per un Paese che proprio sul soft power aveva imper- niato, tra percezione e attrattività, la sua ascesa globale nei primi anni Duemila.

Adesso, gli emiratini vogliono ancora essere protagonisti, ma con minor esposizione militare e su temi assai meno divisivi che in passato. E possono farlo perché, in un decennio, hanno costruito una fitta rete di alleanze bilaterali e, soprattutto, di partnership locali tramite cui esercitare ora un’influenza indiretta. Gli indizi sono parecchi. Dopo essersi ritirati militarmente dallo Yemen e aver frenato l’escalation con l’Iran, gli Emirati Arabi hanno assecondato i sauditi con la 'Dichiarazione di Al Ula' di riconciliazione con il rivale Qatar, parzialmente smantellato la base militare di Assab in Eritrea (l’aeroporto militare di Berbera in Somaliland era già stato riconvertito a funzioni civili) e messo in stand-by l’attivismo militare in Libia.

Washington starebbe apprezzando questa politica estera più minima-lista: si può leggere così lo sblocco, da parte dell’Amministrazione Biden, di una vendita di armi agli Eau pari a 23 miliardi di dollari (inclusi F-35 e droni, con consegne dal 2025), raggiunta da Trump e poi stoppata dal presidente democratico, prima del recente annuncio. Il ministro di Stato agli affari esteri Anwar Gargash, in carica dal 2008 è poi stato sostituito: il capo della diplomazia emiratina è ora l’ex ambasciatore in Arabia Saudita, il giovane Shaykh Shakhbout bin Nahyan, con un curriculum tra finanza e giornalismo. Il 2021 è una data centrale per l’emirato. Gli Emirati Arabi stanno infatti ricalibrando la loro politica estera nell’anno della 'vetrina' dell’Expo di Dubai (a ottobre), nonché del 'Giubileo d’oro', ovvero i cin- quant’anni dalla nascita della federazione, dando risalto a investimenti e partnership su vaccini, cambiamento climatico, cibo e alimentazione, benessere mentale. Proprio i temi più pressanti e 'di tendenza' nel mondo post-Covid 19.

Qualche esempio. Il Dipartimento della salute di Abu Dhabi ha appena lanciato la 'Uae Hope Consortium', un’alleanza pubblico-privato per la distribuzione globale di vaccini anti-coronavirus, che coinvolge anche Abu Dhabi Ports: il consorzio si chiama 'Hope' (speranza) come la sonda lanciata dagli emiratini verso Marte nel 2020. Gli Emirati sono i promotori, con gli Stati Uniti, di 'Aim for Climate', iniziativa per accelerare l’innovazione tecnologica applicata all’agricoltura, riducendo così l’impatto ambientale. Proprio John Kerry, inviato Usa per il cambiamento climatico, ha dichiarato di essere rimasto «colpito dall’ingegno » degli emiratini in tema di agricoltura e sfide climatiche durante il suo recente viaggio negli Eau. In tema di benessere psico-emotivo e pandemia, gli Emirati stanno avviando programmi nazionali di sostegno psicologico online, aperti a tutti i residenti, compresi i tanti lavoratori stranieri. Il 'Programma Nazionale per la Felicità e il Benessere' vorrebbe legare, idealmente, gli Emirati di oggi con la storia di ieri: già il fondatore della federazio- ne, lo sceicco di Abu Dhabi Zayed bin Sultan Al Nahyan, affermava che «la mia ricchezza è la felicità del mio popolo».

Nella rincorsa ai 'messaggi positivi', non è forse un caso che sia stato il club del Manchester City, di proprietà degli Al Nahyan, a ritirarsi per primo dal progetto della Super League di calcio, mentre montavano le critiche dei tifosi – e soprattutto il malumore del premier inglese Boris Johnson – verso l’iniziativa. Di certo, dopo anni di sovra-esposizione e talvolta di avventurismo, gli Emirati sembrano diventati più attenti alla reputazione internazionale. L’abbandono della base di Assab in Eritrea è avvenuta dopo le indiscrezioni, fin qui non provate, sul coinvolgimento di droni degli Eau (stazionati ad Assab), nel conflitto del Tigray in Etiopia, a sostegno del governo. Allo stesso modo, il 'Fronte per il cambiamento e la concordia in Ciad' che ha ucciso il presidente ciadiano Idriss Deby è sospettato – fin qui senza evidenze – di legami con gli Emirati Arabi. Quei ribelli sono infatti allineati ad Haftar in Libia e legati ai russi, entrambi già alleati degli Eau in Libia; l’offensiva del Fronte è partita proprio dal territorio libico. La contro-mossa di Abu Dhabi è stata immediata: ovvero il primo volo umanitario dagli Emirati Arabi destinazione Sahel, a sostegno della missione anti-terrorismo guidata dalla Francia, prima alleata del defunto presidente del Ciad.

La ricalibrazione tattica della politica estera degli Emirati Arabi non rinuncia agli obiettivi prefissati, ma sceglie i mezzi ora più adatti per raggiungere quelli stessi scopi. Nella visione regionale di Abu Dhabi rimangono infatti delle costanti, come la forte competizione geopolitica e infrastrutturale con la Turchia e l’opposizione alla Fratellanza Musulmana (sostenuta da Ankara nonché dal Qatar). Soprattutto, permane la grande ambizione globale degli emiratini, che già hanno redatto la loro 'Vision 2071', per immaginare la federazione nell’anno del centenario. Alternando, con duttilità, il volto della forza militare e quello, più soft, degli investimenti e della cultura.

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