Dobbiamo spezzare questo circolo vizioso tra odio e violenza
lunedì 3 febbraio 2025

L’odio strumentalizzato a fini politici è una strategia che sfrutta sentimenti negativi – paura, risentimento, rancore – per manipolare l’opinione pubblica e consolidare il consenso. Questo meccanismo divide la società in un “noi” e un “loro”, individuando un nemico comune, reale o immaginario, su cui scaricare frustrazioni collettive. Un metodo antico, ricorrente nella storia, che finisce per trasformare la politica in schiava della violenza. Una strada in discesa, facile da percorrere alimentando istinti primordiali, ma poi impossibile da invertire: una volta liberati, gli spiriti sanguinari sfuggono al controllo. Gli orrori del Novecento – dai campi di sterminio nazisti ai gulag staliniani – dovrebbero insegnarlo: l’odio seminato e coltivato nel tempo finisce per generare mostri.

Le tappe di questa strategia tossica seguono un copione ben preciso. Si comincia con la creazione del nemico: gruppi etnici, religiosi o sociali vengono dipinti come minacce alla comunità. La società viene divisa in due fronti opposti, esasperando differenze e cancellando ciò che é comune. Questo comporta la semplificazione del discorso, con slogan emotivi che alimentano ansie e paure, amplificate attraverso i media e i social network. Si costruisce così la cornice ideale per giustificare soluzioni autoritarie.

Una volta avviata, la macchina dell’odio erode il dialogo democratico, sostituendo la cooperazione con la contrapposizione. L’altro, ormai ridotto a nemico, viene rappresentato come un pericolo per l’identità culturale, la stabilità economica o la sicurezza. Fino a essere disumanizzato, privato della sua dignità umana e trasformato in un bersaglio “legittimo”. L’incitamento alla violenza apre la strada a aggressioni fisiche e discriminazioni sistematiche. Le società democratiche stanno scivolando lungo questa china da diversi anni. E le immagini degli immigrati incatenati – recentemente diffuse dalle autorità americane – segnano un salto di livello. Parole come “deportazione”, “immondizia”, “remigrazione”, “pulizia etnica” sono usate non solo nei social, ma da presidenti e ministri, normalizzando linguaggi un tempo confinati ai gruppi più estremisti.

Ma da dove nasce tutto questo odio? La ricerca neuroscientifica ha dimostrato che il cervello umano registra un’alterazione fisiologica di fronte a volti percepiti come “estranei” al proprio gruppo. Alla base c’è dunque uno stimolo ancestrale: un meccanismo cognitivo che, a partire dalla nostra tendenza a categorizzare, distingue il simile dal dissimile. Il problema è l’elaborazione culturale di questo stimolo che va sempre di più nella direzione del razzismo e della xenofobia.

Ci troviamo dunque in un momento in cui sono pezzi importanti delle istituzioni che vanno in questa direzione. Ciò a causa del combinarsi della lotta politica e ideologica in corso da anni con la perdita di empatia che caratterizza le società contemporanee. Il mito del cosmopolitismo “neutro”, coltivato in alcune correnti culturali contemporanee (fino agli eccessi della woke culture), ha esagerato nel negare le differenze. Le tradizioni, i valori e le identità culturali sono elementi costitutivi delle società. Il tentativo di appiattirli ha finito col generare reazioni opposte, trasformandoli in armi identitarie. Uno slittamento che sfrutta l’indebolimento della trama dei legami sociali e il disorientamento di un’opinione pubblica sempre più frammentata, indifferente e assuefatta alla violenza.

Col risultato di ritrovarci in balia di una oscillazione da una polarità all’altra: dopo l’utopia di un mondo senza confini, siamo oggi nel bel mezzo di una deriva nazionalista che esalta i muri e l’esclusione. Per rompere il circolo vizioso odio-violenza, non servono nuove ideologie, ma il recupero di una “ragione critica” capace di riconoscere la complessità dei problemi che dobbiamo affrontare. Problemi che richiedono tempo, pazienza, solidarietà e giustizia. Serve comprendere l’utilità di confini che proteggano storie e culture, ma che siano anche porosi, in grado di permettere scambi e incontri. Serve valorizzare le diversità, sviluppando la capacità umana di dialogare, come condizione per un rapporto tra culture che si confrontano senza annullarsi, preservando specificità e diritti. Serve cercare vie medie, fondate su dati e empatia.

Il ritorno dell’odio oggi non è più un’astrazione, ma un dato di fatto con cui è necessario confrontarsi. Le immagini di ieri (i lager) e di oggi (le catene agli immigrati) ci ricordano che la violenza inizia sempre con una parola. Contrastarla richiede vigilanza attiva, educazione alla complessità e il coraggio di difendere una verità oggi scomoda: la convivenza si costruisce nell’equilibrio tra radici e aperture, non nella negazione dell’altro o di se stessi.

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