martedì 4 febbraio 2025
Le storie di Karim e Jurgen, che fuori dal carcere hanno intrapreso un cammino di trasformazione personale e recupero del senso del bene. Il progetto della «Papa Giovanni XXIII»
Dalla prigione a «Casa Betania», la comunità del riscatto possibile
COMMENTA E CONDIVIDI

Le ferite inferte dalla vita a volte si rimarginano, a volte rimangono aperte e continuano a generare sofferenza. Non solo a chi ne è rimasto vittima, ma anche a chi le ha procurate e non sa trovare pace per il male che ha compiuto. Non basta scontare la pena se alla pena non si affianca un percorso per rielaborare il reato. Ci vuole un luogo, ci vogliono persone che aiutino a guardare quelle ferite, ad approfondirne le ragioni, a intravedere che la vita può sempre ricominciare. Che dall’abisso è possibile risalire. Accade a Casa Betania, comunità fondata nel 1973 a Coriano, sulle colline riminesi, da don Oreste Benzi e che fa parte di quel grande arcipelago del bene che si chiama Comunità Papa Giovanni XXIII.

Karim è uno degli ospiti che ha sperimentato questo bene. Ha 38 anni, viene dalla Tunisia, la prima ferita la conosce quando, ancora bambino, viene violentato poco lontano dalla scuola. Non dice nulla ai genitori, lasciando dilatare la vergogna dentro il suo giovane corpo, fino alla decisione di andarsene da casa. Poi anche lui, come tanti coetanei, segue le sirene dell’emigrazione e del guadagno facile che facile non è. Il barcone su cui era salito rischia il naufragio a poca distanza da Lampedusa, viene salvato dalla Guardia Costiera, in Italia si arrangia a vivere come può, poi il gorgo della malavita lo inghiotte: spaccio, furti, rapine, violenze, la galera. La ferita ricevuta da bambino continua a sanguinare e si aggiunge al peso dei reati commessi, per due volte tenta il suicidio, poi l’incontro inatteso con il cappellano del carcere di Forlì che va a trovarlo in cella. "Figliolo, mi ha chiamato figliolo, e ho sentito un brivido lungo il corpo - mi dice Karim -. Tu forse non puoi capire… Nessuno mi aveva mai chiamato così, neppure mio padre. A lui ho raccontato dolori ed errori che mi facevano stare male, e quando mi ha parlato di Casa Betania mi sono fidato e ho chiesto di andarci".

A Coriano conosce la proposta del CEC, acronimo di Comunità educante con i carcerati, un’esperienza che accoglie persone detenute in alternativa al carcere proponendo un percorso di vita comunitaria in cui la rielaborazione del reato si accompagna alla riscoperta del bene che abita nel cuore di ogni persona. "Qui sono molto esigenti, devi metterti in gioco, essere disponibile a condividere il tuo vissuto nei momenti comuni con gli altri ospiti, avendo il coraggio di dire la verità e di chiedere aiuto. Operatori e volontari mi hanno fatto sentire dentro una nuova famiglia, mi aiutano a capire che io non sono riducibile ai reati che ho commesso e che la vita non va posseduta ma messa a disposizione". Per due anni Karim ha messo la sua a disposizione di Marino Catena, un uomo con gravi disabilità psichiche che gli era stato affidato perché, prendendosene cura, potesse sperimentare il senso della gratuità e scoprire che in ogni persona abita un tesoro. La presenza di persone come Marino - morto l’anno scorso ma che rivive nei ricordi degli ospiti e nelle foto sui muri - è una peculiarità di Casa Betania, voluta da don Benzi per richiamare quanto è importante condividere la fragilità, chinarsi sulle ferite degli altri e accorgersi di quelle che ci portiamo dentro. Per stare in piedi, diceva don Oreste, bisogna saper stare in ginocchio. Solo così si impara ad amare.

Anche Jurgen ha fatto i conti con l’amore, in realtà un amore malato. In famiglia viveva con un padre violento e schiavo dell’alcol e una madre succube, a 21 anni conosce Federica che diventerà sua moglie, cerca in lei il bene che non aveva mai ricevuto in casa, ma il rapporto diventa possessivo fino a degenerare in una vera e propria dipendenza affettiva: Jurgen vive nella paura di essere abbandonato, la donna per lui si trasforma in un idolo, e lei, soffocata, trova la forza di ribellarsi, lo lascia, chiede il divorzio; lui una notte uccide il suo idolo. Il carcere non è una buona medicina, negli otto anni di detenzione incontra solo otto volte la psicologa e si chiude nel silenzio. Torna libero, si accompagna a una ragazza che diventa per lui la fotocopia della moglie: "Con lei rivivevo il ricordo di Federica e con lei ho ricostruito un rapporto di dipendenza che l’ha indotta a lasciarmi". Ma lui non riesce a rinunciare a quel legame divenuto ancora una volta ossessivo e totalizzante, così arriva la denuncia per stalking e una nuova detenzione. Anche per Jurgen si aprono le porte di Casa Betania in alternativa al carcere, qui comincia il faticoso percorso di rivisitazione dei suoi errori e fa i conti con le sue ferite mai rimarginata. Frequenta un centro anti-violenza, viene aiutato da uno psicoterapeuta, insieme agli altri ospiti e con l’aiuto dei volontari cerca di guardare in profondità le cause di quell’amore tossico.

È un cammino in salita che continua tuttora e dal quale ogni tanto cerca di svicolare, "ma è questa la strada che può portarmi a guarigione. Ho sempre cercato di guidare io l’automobile della vita e di lasciare Dio alla mia destra, ora capisco che devo cedere il volante a Dio e lasciarmi condurre. Qui c’è gente che vuole il mio bene, posso fidarmi e affidarmi a loro". Jurgen è un gran lavoratore, ottimo manutentore, in comunità è sempre all’opera. Ricorda la frase che gli disse la criminologa che lo seguiva e dalla quale si sente descritto: "Sei molto bravo ad aggiustare tutto, tranne te stesso. Qui stai imparando a farlo".

Casa Betania è una delle 10 case del progetto CEC nato in seno alla Comunità Papa Giovanni XXIII. Chi viene accolto - naturalmente su decisione del magistrato di sorveglianza - è considerato un "recuperando", parola che esprime l’ipotesi positiva da cui si muovono i promotori di questa esperienza pilota dalla quale il nostro sistema penitenziario ha molto da imparare. E che merita di essere valorizzata e sostenuta se davvero l’espiazione della pena deve diventare occasione di rieducazione del condannato come recita l’articolo 27 della Costituzione, molto citato ma troppe volte rimasto sulla carta. "Sono tre i protagonisti del nostro metodo - spiega Giorgio Pieri, responsabile dei progetti CEC e figlio spirituale di don Benzi -: gli operatori, i volontari che accompagnano le persone in un percorso individuale e comunitario, e i recuperandi, che vengono aiutati a "ripartire" e contemporaneamente spronati ad aiutare gli altri ospiti, diventando a loro volta agenti educativi. Non è un caso se nelle nostre case la recidiva, che a livello nazionale è attorno al 70 per cento, crolla al 10 per cento. Qui la gente ritrova ragioni per sperare. Lavoriamo al rilancio della persona dentro una dimensione comunitaria che si dimostra un ottimo strumento educativo. Siamo testimoni del Vangelo, proponiamo la parola di Dio come occasione di lavoro su se stessi, perché la dimensione religiosa è elemento fondamentale dell’esistenza. Tra gli ospiti abbiamo persone di cultura musulmana, nessuno di loro solleva obiezioni, tutti riconoscono che è utile fare i conti con il senso religioso, che appartiene alla natura umana".

Non c’è posto per il buonismo nel metodo CEC: "Chi ha sbagliato deve pagare, ma la pena deve essere qualcosa di utile e puntare alla riabilitazione. Vanno incentivati percorsi capaci di individuare e rimuovere le cause che hanno portato in carcere le persone, e la nostra esperienza testimonia che un ambito comunitario può favorire queste dinamiche. La dimensione educativa passa attraverso la relazione, perché tutti noi siamo una relazione. E bisogna dare a tutti una possibilità di ripartenza, come abbiamo imparato da don Benzi". All’ingresso di Casa Betania campeggia uno striscione con una frase del fondatore che è la bussola di questo luogo e l’anima di chi segue il suo insegnamento: "L’uomo non è il suo errore".

(3 - continua)

Leggi tutti gli articoli della serie «Vite cambiate»

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: