Le micro-imprese e un Paese da riavviare
venerdì 3 marzo 2017

Il sistema produttivo italiano è costituito da una stragrande maggioranza di microimprese che occupano quasi la metà degli addetti. In Italia le imprese sotto i dieci addetti rappresentavano infatti nel 2013 il 94,8% del tessuto produttivo e il 45,8% della forza lavoro complessiva. È un dato che accomuna l’Italia, seppure con peculiarità proprie, a diverse altre economie dei Paesi ad alto reddito. È anche opinione comune che le aziende debbano crescere per poter avvantaggiarsi di economie di scala che consentano loro di essere competitive nell’economia globale. Il problema è che per diventare dei buoni adulti bisogna avere un’infanzia felice mentre nel nostro Paese tutto sembra congiurare per aumentare le difficoltà dei piccoli rendendo problematico il loro passaggio a dimensioni maggiori.

Anche se nei mezzi d’informazione più importanti del Paese il coro a favore dell’impresa appare assordante, molti dei consigli e delle proposte inclinano naturalmente verso il mondo delle imprese maggiori che hanno più peso e voce in capitolo. Peccato che nella famosa ripartizione tra l’Italia-chece- la-fa e l’Italia-che-non-ce-la-fa le microimprese, nonostante la loro creatività ed energia vitale, rischiano sempre di finire nella seconda categoria non essendo attrezzate per beneficiare delle opportunità di localizzazione a livello globale e dovendo rivolgersi prevalentemente alla domanda interna che come sappiamo è stata negli ultimi anni molto più debole e stagnante di quella estera.

Una delle difficoltà principali per le micro-imprese è rappresentata dall’accesso al credito. Più volte su questo giornale, di fronte alle prime stonate proposte di riforma del credito cooperativo e popolare (anch’esse orientate verso gli interessi delle grandi imprese e delle grandi banche) che rischiavano di distruggere la biodiversità bancaria italiana abbiamo fatto presente un semplicissimo ragionamento. Il modello di grande banca quotata in Borsa che deve creare il massimo valore per gli azionisti è più propenso ad operazioni di alta finanza e più adatto ad accompagnare sui mercati esteri le imprese medie e grandi, mentre considera assolutamente non redditizio prestare denaro alle microimprese o alle imprese artigiane. È un semplice effetto della legge di gravità del prestito bancario dove i costi fissi di istruttoria del prestito possono coprire a malapena ai guadagni da interesse su prestiti di piccola entità. Per questo motivo ogni Paese ha al suo interno banche locali, di comunità o di territorio (per esempio le Landesbank tedesche e le Community Investment Banks statunitensi) o sta comunque sviluppando piattaforme di finanza alternativa che hanno come missione specifica il finanziamento alla piccola impresa locale senza l’assillo della necessità di creare il massimo valore per gli azionisti. Non è un caso che le banche di credito cooperativo finanzino una quota di progetti delle microimprese superiore a quella delle grandi banche in proporzione alla loro quota di mercato.

Ma le banche di credito cooperativo continueranno a essere banche locali dopo la riforma o l’assillo di requisiti stringenti della vigilanza Bce, sotto cui ricadranno, ridurrà ulteriormente gli spazi per questo tipo di credito? I dati relativi alla fine del 2016 continuano ad indicare che in Italia il credito ai piccoli resta uno dei problemi più seri. Nel suo ultimo rapporto uscito qualche giorno fa, rielaborando i dati di Bankitalia, Confartigianato fa presente che tra il 2014 e il 2016 l’unico segmento produttivo che ha registrato un calo dei prestiti è quello delle micro imprese (-2,2%) a fronte di aumenti per le grandi (5,9%), le medie (1,3%) e le piccole (1,1%). Le stesse dinamiche si osservano se guardiamo solo ai prestiti appartenenti alla classe di minor rischio in ciascun gruppo dimensionale. E questo nonostante le sofferenze delle microimprese siano calate di più di quelle per gli altri gruppi e, in genere, risultino coperte dalle garanzie personali dei titolarii.

I quali si trovano di fronte a uno spread rispetto alle imprese medio-grandi di circa 300 punti base (ovvero pagano il credito il 3% in più). Essere dalla parte del lavoro e della piccola impresa oggi vuol dire trovare soluzioni agli specifici problemi delle microimprese e delle imprese artigiane. Perciò è importante lavorare sui punti deboli del Sistema Paese (burocrazia, giustizia civile, banda larga, costo dell’energia), ma non basta. L’Italia e l’Europa hanno bisogno di uno Small Business Act che dovrebbe includere il tema dei tempi di pagamento ai fornitori e dei tempi della pubblica amministrazione oltre che idee per il superamento del razionamento del credito guardando, salvaguardando e arricchendo la biodiversità bancaria con attenzione particolare alle banche etiche, cooperative e locali che sono naturalmente più orientate al credito verso i piccoli. Altrettanto importanti sarebbero iniziative come il Pmi Correction Factor che negli Stati Uniti prevede esplicite 'regole di favore' per le imprese artigiane e le microimprese (ad esempio con piccole quote riservate negli appalti pubblici) per promuovere le pari opportunità, correggendo il loro svantaggio di partenza.

Viviamo in un Paese dove gli interessi delle piccole microimprese sono sottorappresentati, e lo si vede chiaramente. Peccato, però, che sia questa l’«area chiave» dei nostri problemi e anche del malcontento che rischia di travolgere tutto e tutti. Renderseno conto e intervenire è una delle priorità assolute.

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