Dalla pace delle armi a armi della pace
venerdì 17 luglio 2020

Sacralizzata o no, è da tempo che si attribuisce alla violenza armata, da cui le guerre e dunque la morte 'sul campo', uno statuto quasi naturale nel nostro immaginario simbolico. La storia umana, imparata sui libri e commentata dai monumenti, è una storia di guerre. Siano esse di conquista, di occupazione, di resistenza oppure preventive, ogni volta più sofisticate. Si crede ciecamente che soltanto l’uso delle armi e del sangue versato possano ottenere la pace.

Quanto accade nel Sahel, con questa infinita litania di morti, feriti, sfollati, profughi o rapiti, ne è un’esemplificazione tangibile e misurabile. Continuare a produrre, vendere, esportare, riciclare armi per fermare la violenza dei gruppi armati (terroristi, jihadisti, banditi, trafficanti e contrabbandieri) non avrà altro risultato che quello di perpetuarne il tragico rituale. Essa si è trasformata col tempo in identitaria, comunitarista, in gruppi di autodifesa o in militari governativi che, spesso, provocano più decessi che i gruppi armati stessi. Questa è la pace delle armi, una pace di sabbia. Padre Pierluigi Maccalli, da sempre, ha usato esclusivamente le armi della pace. A 22 mesi dal suo rapimento è bene ricordare le 'armi' che aveva importato nell’Africa Occidentale dove si è trovato a realizzare la sua vocazione missionaria.

Già in Costa D’Avorio e precisamente a Bondoukou, cittadina ad oltre 400 chilometri dalla capitale economica Abidjan, aveva realizzato un centro di accoglienza per i disabili. Molte persone e in particolare bimbi e bimbe avevano potuto alzarsi e camminare con dignità dopo essere stati operati alle gambe nell’apposito centro di Bonoua. Li portava lui stesso in auto, dopo averli accolti, riconosciuti e convinti a rischiare il viaggio verso una possibile guarigione. Tornavano a casa camminando – talvolta con le stampelle, altre volte, per qualche miracolo, con le loro gambe – e destando stupore e imitazione. I bambini prima nascosti per vergogna o timore dai genitori, venivano allo scoperto, certi di essere aiutati.

La stessa arma Pierluigi l’ha portata nel Niger fin dal suo arrivo. L’attenzione ai malati, a chi non aveva cibo e acqua sufficiente per vivere dignitosamente, la priorità di coloro che non interessavano a nessuno perché poveri e contadini perduti nella savana alla frontiera tra il Niger e il Burkina Faso. Cittadini invisibili di un Paese che li considera doppiamente stranieri perché per buona parte cristiani. Gigi sapeva bene che senza giustizia, libertà, verità e dignità nessun cantiere di pace avrebbe mai potuto vedere la luce. L’opzione per i poveri è stata per lui come una conseguenza della follia evangelica. La 'Basilica' di cui andava fiero e che ha probabilmente contribuito a farlo rapire, era la Chiesa che nei poveri trova l’unica ricchezza che le sia consentita. In realtà la sua 'arma' di pace erano i poveri. Ora, in questi 22 mesi di prigionia, è lui stesso, proprio perché indifeso, l’arma della pace più potente che mai abbia portato nel Niger.

Niamey, 17 luglio 2020

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