Dal cinema alla teologia: identità è umanità
giovedì 23 gennaio 2020

Nelle ormai trascorse ed archiviate vacanze natalizie si è registrato da più parti il notevole successo di prodotti cinematografici, che, a differenza degli abusati cinepanettoni degli scorsi anni e decenni, non hanno mancato di suscitare riflessioni e dibattiti, ben al di là magari delle attese di risate di evasione o di momenti di puro relax. Come ha, con competenza e perspicacia, notato Angela Calvini sulle pagine di questo giornale, con riferimento ai film di Zalone e di Ficarra e Picone, ci può essere un umorismo intelligente, che fa pensare e certamente anche discutere intorno a tematiche decisive per il nostro tempo. Non intendo ora recensire questi prodotti, che mi vedono anche molto critico, ma soffermarmi sulle due fondamentali tematiche in essi affrontate: quella dell’immigrazione e quella dell’identità delle origini cristiane.

Non è difficile cogliere il nesso, né sfuggono gli intrecci fra queste profonde e attuali dimensioni del nostro tempo. Paradossalmente proprio anche chi si contrappone con virulenza ai flussi migratori, comprende che essi mettono in gioco l’identità stessa della nostra cultura e della nostra esperienza religiosa. Con interessante acume interpretativo, nel suo saggio intitolato 'Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi' (edito in italiano dalla Utet lo scorso anno), Francis Fukuyama ha fatto notare che l’origine (diremmo antropologica) della contrapposizione fra culture e appartenenze religiose (il cosiddetto «conflitto di civiltà») risiede nel «risentimento» di chi ritiene in pericolo la propria dignità e identità. Quel «risentimento» che nasce dal mancato, o spesso presunto tale, riconoscimento della propria identità da parte degli altri. Un (ri)sentimento che finirà comunque con l’esprimersi nella violenza (verbale o fisica) verso il diverso, l’altro, colui che ci minaccia, mentre al tempo stesso induce i soggetti ad aggrapparsi a quello che si ritiene il proprio universo simbolico, anche religioso.

Di qui scaturisce, a mio parere, un duplice compito per la teologia. In primo luogo si tratta di ripensare l’identità cristiana, andando all’essenziale e, diremmo all’originario: l’evento cristologico, come avvenire dell’umanità di Dio stesso. Un efficace esempio neotestamentario, ci ha interpellato nella liturgia delle ore di questi giorni, quando abbiamo letto che i Colossesi vengono invitati proprio al recupero dell’essenziale della fede: «Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno vi impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio della sua mente carnale […]» (Col 2,16-18). Il presepe vivente sarà dunque l’occasione per un viaggio nel tempo, onde ritrovare l’evento e il suo senso. E ciò sia per chi vuol vivere il Natale nella fede (il prete), sia per chi (il ladro non credente) nell’immediato trova nei simboli sacri un’occasione di guadagno e di commercio. E, a partire dal mistero dell’incarnazione del Verbo, il monoteismo trinitario, che fonda la fede cristiana, sarà inclusivo dei monoteismi altri. E tutti dovrebbero condividere il fatto che, se c’è un solo Dio, gli uomini sono tutti suoi figli e quindi fratelli.

Un secondo compito teologico, mi sembra quello relativo al senso dell’universo simbolico cristiano, che deve costituire l’orizzonte in cui interpretare i singoli gesti, le immagini, gli oggetti, che popolano la nostra esperienza religiosa e credente. E tale orizzonte è e deve restare quello sacramentale. Al di là di fantastici viaggi nel tempo, la contemporaneità con Cristo si vive e si realizza nella sua presenza reale eucaristica. Sicché la vita cristiana o è vita eucaristica o non è tale. Crocifissi e rosari, presepi e icone ruotano intorno alla concreta e vivente contemporaneità eucaristica di Cristo, diversamente diventano esanimi simulacri di vuoto, come le statue e gli inni, che Hegel vedeva ormai prive di vita e mancanti di fede. E, nel momento in cui questi elementi dell’universo simbolico si 'espongono' in contesto laico (e che sia autenticamente tale), va dichiarata ed espressa la loro valenza profondamente umana, inclusiva e non divisiva, che è il contrario del «risentimento »'. Lezioni di umanità che sono rivolte a tutti, lasciando alla libertà di ciascuno l’adesione credente a ciò che significano. In questo senso la rivelazione cristiana va resa credibile in quanto universalizzabile.

Nel suo ultimo libro 'Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza artificiale', il compianto filosofo Remo Bodei poneva una domanda decisiva: «È già oggi possibile immaginare un allentamento di quel vincolo tra logos e polemos, per tanto tempo ritenuto tacitamente indissolubile, in favore di una ragione ospitale, includente, non fondata sul vade retro! della paura, vale a dire sull’ostilità nei confronti di chi non appartiene al proprio gruppo?». Il «risentimento » rischia di bloccare tale capacità immaginativa, di conferire a polemos un potere assoluto e di precluderci la pace di cui tanto abbiamo bisogno.

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