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«Fede è sostanza di cose sperate / ed argomento delle non parventi», disse con molta autorità nonna Virginia, cominciando la lezione di catechismo, che impartiva puntualmente e severamente ogni venerdì pomeriggio - dalla sua seggiola piantata nell’erba davanti al bersò - a un eterogeneo gruppo di bambini locali, nipoti ed occasionali visitatori («tanto – era solita dire – siete tutti ignoranti; ma per i piccoli è logico, devono imparare, mentre voi grandi avete dimenticato tutto, e bisogna rinfrescarvi la memoria»). Eravamo nel nostro amato paradiso di Susin di Sospirolo, sul grande prato davanti alla sua casa, tutti seduti sull’erba a gambe incrociate, e guai a muoversi. Appena si poteva ogni tanto sbirciare verso sinistra, tra le foglie dentellate dei carpini aggrovigliati, i due cestini di prelibati biscotti alle mandorle e alle noci, pronti per la merenda sul tavolo rotondo di pietra dentro il bersò. Quel giorno nessuno capì che cosa aveva detto, tranne che erano dei versi. Ma siccome la nonna sapeva a memoria i primi quattordici canti della Commedia dantesca, il che l’autorizzava a ritenersi una grande esperta del poema e a non tollerare interruzioni quando intonava i primi versi (in quel caso bisognava lasciarla andare avanti finché voleva), o citava altre brevi sequenze dedicate a personaggi che amava, come Pia dei Tolomei o Jacopo del Cassero, tutti noi ascoltatori restammo in attesa.

I grandi si guardavano incerti, noi bambini aspettavamo fiduciosi. Con nonna Virginia non si sapeva mai, forse avrebbe cominciato a cantare, e allora c’era da divertirsi. Lei sapeva anche tante altre poesie e filastrocche, di origine varia e spesso inaspettata, alle quali adattava canzoncine di sua invenzione. Era un personaggio originale, che piaceva molto alle nostre menti infantili; e teneva testa a sua figlia – nostra madre – con una ferma disinvoltura che la lasciava priva di repliche (e tutti sapevano quanto era difficile togliere la parola alla bella, capricciosa Vittoria...). Ma quella volta parlò seriamente, guardando con intenzione gli adulti: «Naturalmente sono versi di Dante – disse, sorniona – ma qui nessuno sembra averlo capito... E quello che certamente non avete capito è che lui spiega la Fede (la prima delle tre virtù teologali) attraverso la seconda, che è proprio la Speranza: aver fede è essere sicuri della propria speranza, cioè delle cose che non solo speriamo, ma siamo sicuri che avverranno: così come siamo sicuri che l’anima esiste anche se non la vediamo, e che dopo la morte non moriremo». Questa frase mi piacque moltissimo. Allora avrei rivisto di sicuro la zia Rosina Rosmini, da cui mi portavano ogni pomeriggio per farle compagnia con le mie chiacchiere, l’estate prima, e che mi aveva regalato tanti dolcetti e il cammeo col suo ritratto; e anche nonna Antonietta, che mi aveva mandato via dalla sua stanza un pomeriggio, improvvisamente, dicendo alla mia tata: «Porta via la bambina, non è più spettacolo per lei», ed era morta un quarto d’ora dopo.
Allora le cose sperate si realizzavano, pensai. Ma in quel momento nonna Virginia proseguì il suo discorso: «Ma voi bambini ricordatevi che le “cose sperate” devono essere cose importanti, cose serie: e soltanto il Signore sa come realizzerà le vostre speranze. Inutile sperare in gelati extra e regali sopraffini...». Tutti ci voltammo insieme, come mossi da una molla, verso i cestini dei biscotti: quella era di sicuro una speranza che stava per realizzarsi, sempre che la nonna non ci vedesse distratti. E così ci mettemmo ad ascoltare tutti quanti in devoto silenzio, tenendo ferme le gambe; ma a me piacque molto anche il verso che seguiva: non la spiegazione della nonna, che mi parve un po’ oscura, ma il suono armonioso delle sue parole, perché mi sembrò che quelle cose “non parventi” fossero luminose, trasparenti e bellissime, anche se probabilmente nascoste dietro un paravento luccicante come quello della camera da letto della nonna-zia Francesca.
Ma che cosa fosse la speranza mi si rivelò del tutto forse un anno dopo, e fu sempre attraverso nonna Virginia e la poesia. Era un altro giorno di piena estate. Mentre io correvo dal salotto verso la terrazza dei glicini, nella stanza vicina lei stava spolverando la scrivania del nonno, e attraverso la porta aperta la sentii canticchiare dei versi stranissimi, che però mi incantarono subito: «Speranza è quella cosa con le ali/ che si china sull’anima/ e intona una musica senza parole/ e non si ferma maiiii». Cantava gorgheggiando sulle finali; e poi riprese da capo la filastrocca con la sua bella voce un po’ bassa, mentre si allontanava verso il fondo della casa, verso la lunga cucina fredda col lavatoio di marmo.
La amai moltissimo in quel momento, quella nonna altera e un po’ fredda come la sua cucina (da dove però proveniva il purè più caldo e buono del mondo, pensai) e la seguii attraverso le stanze per ascoltarla di nuovo (interromperla non si poteva, in quei suoi momenti di canto). Ma le tirai un angolo della lunga gonna nera, e dal basso le dissi soltanto «Ancora, nonna, per piacere!». Lei mi guardò, si asciugò le mani, sorrise e disse soltanto: «Va bene». E da allora la speranza fu per me l’immagine di “quella cosa con le ali”, dunque di un uccellino – il cui colore era il verde, naturalmente - al quale bisognava far trovare sempre aperte le porte dell’anima, che spesso (mi disse allora la nonna) noi egoisti teniamo invece serrate. Ma molti anni più tardi, leggendo l’intera poesia, capii che l’uccellino verde era l’immagine colorata e seducente della nostra più profonda realtà: noi tutti, esseri umani, siamo incapaci di vivere senza speranza; e togliere a qualcuno la capacità di sperare è in realtà una forma di uccisione, un vero delitto.
Se guardiamo dentro di noi, il suo fuoco nel fondo c’è sempre: tenue forse, ma profondamente radicato nel nostro cuore. E la breve lirica di Emily Dickinson che la nonna canticchiava a memoria continua così, illuminando la forza e la potenza della Speranza in pochi altri versi vigorosi e gentili: «E più dolce nel vento la si ascolta;/ e terribile deve essere la tempesta/ che può spaventare quell’Uccellino/ che ci ha donato tanto calore./ Io l’ho sentito nelle lande più fredde/ e sui mari più ignoti;/ ma anche nel momento supremo/ non ha chiesto neppure una briciola – a Me».
Sono immagini forti, che si inseguono una dietro l’altra, e compongono un quadro ricco di movimento e di colori, che si imprime subito in mente, fra l’uccellino vibrante, le lande desolate, il mare ignoto e il momento supremo: e si riconosce subito lo stile denso e concreto della grande scrittrice americana che visse volontariamente reclusa nella sua stanza, scrivendo con cristallina e felice precisione poesie intensissime e nient’affatto romantiche, di un misticismo intriso di immagini realistiche e vive del mondo creato, che si incidono nel lettore, lo inquietano e lo portano altrove. Ma sempre arricchendo la sua esperienza, facendogli capire l’avvolgente mistero del mondo di Dio e l’oscura profondità della morte come parte familiare della vita: «Se non dovessi più vivere/ quando vengono i pettirossi,/ date a uno di essi/ una briciola in memoria.// Se non potessi ringraziarvi/ essendomi tanto addormentata,/ pensate che tenterò di farlo/ con le mie labbra di granito».