sabato 18 giugno 2016
​Il campo kenyano, il più grande del mondo nato nel '91 per la guerra in Somalia, rischia la chiusura. Nairobi teme il terrorismo. Ma è allarme umanitario. Impossibile rimpatriare gli ospiti, è difficile che altri Paesi li accolgano.
Kenya, 600mila profughi via da Dadaab
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«Si può solo immaginare l’onda migratoria che si scatenerebbe dopo un simile sgombero. Si tratta dell’ennesima provocazione per l’Europa, la quale sembra ancora balbettare sul tema delle migrazioni forzate, sebbene abbia al suo interno esperienze riuscite di chi lavora a stretto contatto con i profughi. Di modelli pratici cui ispirarsi ce ne sono tanti, anche a livello di società civile». Sono le parole di Giampaolo Silvestri, segretario generale della Fondazione Avsi, organizzazione umanitaria che lavora nel campo rifugiati di Dadaab dal 2009, concentrandosi sull’istruzione. Secondo le Ong sul terreno, infatti, è difficile prevedere quale direzione prenderebbero gli oltre 600mila profughi nel caso si ritrovassero senza una casa, pur provvisoria, come quella garantita a Dadaab. Gran parte di loro sono somali, etiopi, eritrei, sudanesi e sudsudanesi. Fratelli e sorelle di quei migranti che, rischiando la loro vita per disperazione, sono già arrivati in Europa negli ultimi anni e con cui sono rimasti in contatto. Nonostante i vari punti di domanda, una cosa è certa: nessuno di loro vuol tornare nel suo Paese di origine. «La gente è molto preoccupata per la possibile – e forse ormai probabile – chiusura», afferma Andrea Bianchessi, responsabile di Avsi per l’Africa orientale. «Abbiamo incontrato attuali insegnanti che sono arrivati a Dadaab quando erano bambini, nel 1992, e la considerano la propria patria. Insieme abbiamo costituito o riorganizzato oltre 300 classi e formato 1.250 insegnanti – spiega Bianchessi –, ora però possiamo solo restare con loro, accompagnarli, e fare tutto il possibile per tener viva la speranza». La tensione, spesso giustificata, sta crescendo in Europa come in Africa. Nonostante non sia la prima volta che il Kenya dica di voler chiudere definitivamente i battenti di quello che è diventato il terzo 'centro urbano' del Paese, dopo la capitale Nairobi e la città portuaria di Mombasa, le autorità questa volta sembrano davvero determinate ad andare fino in fondo. Alcuni esponenti del governo, tra cui il vice-presidente William Ruto, hanno addirittura definito Dadaab una «piattaforma del terrorismo». Gli attacchi contro l’università di Garissa nel 2015 e il centro commerciale Westgate di Nairobi nel 2013, in cui morirono oltre 200 civili, sarebbero stati pianificati dentro il campo di rifugiati. «È quindi ora di smantellare Dadaab per ragioni di sicurezza – ha dichiarato Ruto al Summit globale umanitario tenutosi il mese scorso in Turchia –. Europa e Stati Uniti devono condividere con noi questo peso». E le Nazioni Unite avrebbero accettato in via di principio la decisione del Kenya, secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri di Nairobi, Amina Mohamed, riferendo sull’incontro avuto nei giorni scorsi a Bruxelles dal presidente Kenyatta con Ban Ki-moon. «Il segretario generale ha detto che comprende la nostra scelta – ha detto il ministro –, ora è stato accettato a livello internazionale il fatto che il campo di Dadaab verrà chiuso», entro il prossimo novembre. I dettagli e le scadenze per il rimpatrio dei profughi verranno definiti a Nairobi il mese prossimo, alla conferenza Onu su Commercio e Sviluppo. Dadaab è quindi vista come una bomba ad orologeria. Ma verso chi sarà lanciata? Analisti, agenzie umanitarie e organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno espresso la loro contrarietà, a volte però dividendosi sull’analisi e sulle soluzioni. «La comunità internazionale deve fare la sua parte per cambiare la percezione negativa legata alla migrazione – afferma un rapporto del Rift Valley Institute (Rvi), un istituto di ricerca indipendente con sede in Kenya –. Sfruttare i migranti come capri espiatori per ragioni di sicurezza non è una risposta valida». A tale riflessione ha risposto Wairimu Munyinyi-Wahome, consigliera per la protezione presso il Norwegian Refugee Council (Nrc): «Nel caso di un ritorno nella poverissima e instabile Somalia – ha spiegato Munyinyi-Wahome –, molti profughi, metà dei quali sono minorenni, potrebbero essere più facilmente reclutabili dagli estremisti islamici di al-shabaab». Secondo la Solutions Alliance, un gruppo formato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), la Banca mondiale e lo stesso governo somalo, un rimpatrio forzato in Somalia «destabilizzerebbe l’intero Paese vanificando i risultati ottenuti fino ad ora». Kate Allen, direttore della sezione inglese di Amnesty International, ha criticato la decisione dicendo che «i profughi in Kenya sono scappati dalla stessa violenza che le autorità dicono di combattere. Se Dadaab chiuderà – continua Allen –, le conseguenze saranno disastrose per centinaia di migliaia di persone». L’amministrazione del presidente Uhuru Kenyatta ha già prospettato un piano di di distribuzione dei rifugiati (probabilmente più un auspicio che una possibilità reale): «La Gran Bretagna può accogliere 50mila migranti, gli Stati Uniti 100mila e altri Paesi 5mila ognuno – ha proposto un funzionario governativo –. Condividere tale responsabilità vuol dire che alcuni Paesi dovrebbero farsi avanti e dire: noi ne accogliamo 5mila, noi 10mila». A Nairobi c’è chi comprende le motivazioni della leadership politica kenyana, sebbene non ne approvi il modus operandi: «La comunità internazionale non ha saputo riconoscere le sfide legate alla sicurezza affrontate dal Paese – è uno dei punti su cui si sofferma la Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya (Kccb) –, per questo il governo si sente ora sotto pressione e frustrato nei suoi tentativi». L’Unione Europea ha invece appena confermato di voler incrementare di circa 60 miliardi di euro durante i prossimi anni il budget dell’Emergency Trust Fund utilizzato per i progetti legati alla migrazione. Secondo quanto dichiarato della Ue, i fondi saranno destinati a «programmi di ricerca lavoro in loco, centri d’accoglienza, e materiale logistico per i Paesi incaricati di fermare i flussi migratori indirizzati verso il Nord». Quest’ultimo aspetto, però, ha provocato un’ondata di indignazione. «Siamo davanti a una situazione che rasenta l’assurdità – protestano molti esperti –. Per fermare i migranti, l’Europa non può sovvenzionare quegli stessi Paesi che sono oggetto di sanzioni Ue a causa delle violazioni dei diritti umani». L’Acnur ha infatti ricordato che in Sudan ci sono «400mila sfollati all’interno della regione del Darfur a causa del conflitto tra gruppi ribelli e forze governative. Inoltre – recitava la nota –, oltre 6,9 milioni di sudanesi sono bisognosi di assistenza umanitaria». Le autorità di Khartum spesso hanno rimpatriato eritrei e etiopi in modo forzato, senza dare loro la possibilità di avviare le richieste di asilo politico. Tornati nei loro Paesi d’origine, i migranti sono stati sottoposti ad arresti indiscriminati e torture. «La totale negazione dei diritti umani in Eritrea costringe migliaia di cittadini a scappare ogni mese», conferma un rapporto dell’organizzazione Human Rights Watch. Il governo etiope, invece, è accusato di creare un «Darfur silenzioso» sul suo territorio. «Uccisioni, stupri, pestaggi, torture, sparizioni, detenzioni arbitrarie, imprigionamenti politici, distruzione delle scorte di cibo – elenca il Movimento solidale per la nuova Etiopia (Smne), un’associazione che coinvolge anche etiopi della diaspora –, sono questi i crimini commessi dalle autorità contro le etnie anuak, oromo, ogadeni e altri gruppi sparsi per il Paese». In Sud Sudan, invece, mentre c’è alta tensione nella capitale Juba, la guerra civile continua nelle aree più remote. A causa degli ultimi due anni e mezzo di massacri, sia il presidente, Salva Kiir, sia il vice-presidente, Riek Machar, potrebbero essere messi sotto inchiesta per i crimini commessi nel Paese, costati, si stima, 300mila morti e due milioni di sfollati. «L’Europa deve smetterla di 'esportare' le sue paure rispetto ai migranti – avverte Ruben Andersson, antropologo associato alla London School of Economics –. Paradossalmente, le iniziative di collaborare con gli Stati africani potrebbero finire con l’alimentare le migrazioni irregolare invece di ridurle».
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