giovedì 30 novembre 2017
Se da un lato molte iniziative sono nate nelle pieghe di una normativa che ha permesso elusione o evasione, dall'altro le norme tributarie spesso sono davvero eccessive e vessatorie
Da Airbnb a Uber: il fisco alla prova dell'innovazione
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L’Autorità garante della Concorrenza e del mercato, nel suo ultimo bollettino del 27 novembre, è intervenuta in merito al «potenziale impatto restrittivo della concorrenza» portato dalle nuove disposizioni fiscali per le «locazioni brevi» introdotte dalla legge 96 del giugno scorso. Si tratta della cosiddetta «tassa Airbnb», dal nome del sito internet che mette in contatto persone in cerca di alloggio per periodi brevi, e che solo nel mese di giugno ha fruttato oltre 300 milioni alle casse dello Stato. La norma fiscale impone a questo tipo di piattaforme di operare in qualità di sostituto d’imposta una ritenuta del 21% sui canoni di locazione breve, provvedendone al relativo versamento nelle casse dell’erario. L’Autorità antitrust, pur dichiarandosi «consapevole che l’intervento del legislatore mira a realizzare un interesse pubblico di natura fiscale e a contrastare il fenomeno dell’evasione» sostiene tuttavia che «l’introduzione dei suddetti obblighi non appare proporzionata rispetto al perseguimento di tali finalità» e che la norma potrebbe «scoraggiare, di fatto, l’offerta di forme di pagamento digitale da parte delle piattaforme che hanno semplificato e al contempo incentivato le transazioni online, contribuendo a una generale crescita del sistema economico».

Quanto riportato sopra segnala che la regolazione della sharing economy (o economia della condivisione, ndr) è ormai diventato un tema di scottante attualità anche nel nostro Paese e va rilevato come, ancora una volta, l’attenzione sia rivolta esclusivamente al solo aspetto fiscale, e si continuino invece a trascurare altri aspetti, non meno rilevanti, in materia di tutela dei consumatori, dei diritti dei lavoratori, della privacy. Su questo tema si scontrano due posizioni contrapposte: la prima vede nel sistema di rating predisposto dalla piattaforma un’alternativa efficace alla tradizionale regolazione e dunque considera quest’ultima inutile e ridondante; la seconda evidenzia invece l’esistenza di una serie di problemi e di fallimenti di mercato propri della sharing economy e vede nella regolazione un possibile strumento per ridurli.

In merito all’attività di regolazione vi è inoltre una profonda differenza tra Paesi che si basano sul principio di common law (come il Regno Unito e gli Usa) e quelli, come l’Italia, che si basano invece sul principio di civil law. Un’altra importante differenza riguarda i Paesi con una struttura federale o fortemente decentrata, e Paesi con una struttura nazionale e/o accentrata. In particolare è facile comprendere come in Paesi di common law si possa più facilmente, attraverso l’applicazione del precedente, regolare materie nuove ed in continua evoluzione. Inoltre, Paesi dove molte competenze legislative sono affidate a entità di livello inferiore a quello nazionale/federale possono applicare regolamentazioni differenti in parti del territorio diverse come possibile laboratorio in vivo di sperimentazione legislative per poi poter confrontare i risultati e diffondere le best practice. Dal punto di vista della regolazione della sharing economy l’Italia sembrerebbe dunque partire svantaggiata da un duplice handicap.

La riflessione scientifica sulla sharing economy ha individuato quattro possibili approcci alla regolazione della stessa: 1) Nessun intervento. Questo approccio, propugnato dall’ala liberale e libertaria dell’economia e del diritto, non sembra proprio poter essere considerato come un’opzione accettabile per due principali motivi: il primo fa riferimento all’esistenza di chiari casi di fallimento di mercato nei campi della responsabilità civile e della protezione sociale; il secondo si riferisce alla necessità che il regolatore stabilisca un terreno comune di regole chiare e condivise in cui le piattaforme della sharing economy e gli operatori dei vari settori tradizionali possano competere allo stesso livello. 2) Regolazione e liberalizzazione. Questa opzione deriva dall’applicazione di una quantità minima di regolazione alla condotta delle piattaforme della sharing economy mentre al contempo si riducono tutte le normative che attualmente vincolano le imprese appartenenti alle industrie tradizionali in modo che le due parti possano incontrarsi e competere su un terreno comune intermedio raggiunto da due opposte direzioni. 3) Approccio ibrido con regimi ad hoc. Questa alternativa privilegia la ricerca e l’applicazione di soluzioni specifiche per ciascun sotto-settore della sharing economy, sacrificando l’omogeneità normativa per raggiungere una maggior efficacia case-by case e, così facendo, fa tesoro della letteratura scientifica empirica che, sulla base di risultati ancora molto incompleti e sparsi, è comunque concorde nel ritenere che la regolazione della sharing economy non possa essere disegnata secondo una logica alla one size fits all. 4) Regolazione generalizzata. Questo orientamento - che consiste semplicemente nell’applicazione della regolazione esistente per i soggetti 'off-line' alle piattaforme della sharing economy ritenendolo l’unico modo possibile per creare un terreno comune in cui entrambe le tipologie possano competere in modo equo - non sembra poter essere applicabile, in quanto molti dei vincoli e dei regolamenti attualmente imposti alle imprese tradizionali appaiono arretrati, inopportuni e inefficaci già per questa tipologia di imprese.

Il recente intervento dell’Autorità sembrerebbe dunque scartare l’applicazione nel nostro Paese del terzo approccio sulla base del rischio di «asimmetria nelle dinamiche concorrenziali esistenti all’interno dei diversi settori dell’economia digitale che, invece, parrebbe opportuno disciplinare in maniera il più possibile uniforme, data anche la continua evoluzione nelle dinamiche dell’offerta e della domanda» ed indicare un potenziale pericolo per la competitività del nostro sistema economico derivante dall’adozione di norme sostanzialmente differenti da quanto previsto nel resto dell’Unione Europea. Escludendo per motivi evidenti le soluzioni estreme (assenza di regolazione o applicazione indifferenziata delle stesse norme ai soggetti on e off-line), resta dunque il difficile percorso della 'regolazione e liberalizzazione' per valorizzare le potenzialità di questo strumento innovativo, favorendone lo sviluppo in un contesto ordinato che tenga presente i legittimi interessi di imprese, consumatori e lavoratori.

Forse, paradossalmente, il campo fiscale potrebbe configurarsi come un laboratorio ideale per una coraggiosa sperimentazione normativa in Italia. Se da un lato infatti molte iniziative della sharing economy sono nate nelle pieghe di una normativa che ha permesso in tanti casi pratiche di elusione, quando non di totale evasione, fiscale; dall’altro è indubbio che la regolamentazione in materia tributaria nel nostro Paese è davvero eccessiva e spesso vessatoria. Lo spazio di negoziazione è quindi ampio. Il legislatore nazionale sarà in grado di sfruttare questa possibilità? La posta in gioco è davvero alta e sicuramente più rilevante di molti argomenti che attualmente affollano le discussioni parlamentari.

*Ordinario di Politica Economica, Università Cattolica del Sacro Cuore

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