venerdì 28 novembre 2008
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Caro Direttore, vorrei intervenire riguardo alla missiva del sig. Mauro, pubblicata in Avvenire del 1° novembre, nella quale sosteneva che il liberismo non è la causa della grave crisi economica, che sarebbe invece attribuibile alle politiche economiche statali della presidenza Clinton. Anzitutto voglio puntualizzare che i suindicati interventi statali erano più che altro «linee guida» (e non decreti legge!) all'epoca necessarie, in quanto si trattava di misure atte al sostegno delle minoranze nonché a beneficio dei lavoratori salariati, spesso preda di propietari edili senza scrupoli morali. Se troppo spesso si elargivano alti mutui non proporzionati al reddito, la colpa non è forse da attribuire all'immoralità di certi speculatori finanziari? Bisognerebbe chiedere a costoro di prendersi le loro responsabilità dinanzi al mondo e soprattutto nei confronti dei troppi cittadini lusingati dall'idea di potersi permettere un'abitazione al di sopra delle loro possibilità. Questo è il vero dramma! Per quanto riguarda poi l'avversione allo statalismo, vorrei ricordare che durante la crisi di Wall Street del 1929, l'allora presidenza Roosevelt riuscì a contrastarla solamente grazie a massicci interventi statali (per sempio approvando gigantesche opere pubbliche). In questo momento storico abbiamo bisogno solamente di una cosa: più controllo da parte dello Stato, più statalismo, più giustizia sociale. Infatti bisogna constatare come il mondo occidentale abbia smarrito (in campo economico-e non solo) quella che un tempo si chiamava «questione morale», di cui c'è più che mai bisogno.

Andrea Pellizzer, S.Stino di Livenza (Ve)

Dicono che la storia non si ripete ma in realtà – come è stato da più parti osservato – l’attuale crisi globale presenta più di un’analogia con quella epocale degli Anni Trenta che, in America, diede appunto origine al New Deal, il piano di riforme economiche e sociali promosso da Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il 1937 allo scopo di risollevare il Paese dal «big crash». Anche allora, gli Stati Uniti come il mondo intero, si trovarono ad affrontare la dismisura tra la speculazione finanziaria e la crescita reale, il crollo delle Borse, il collasso del credito, la riduzione dei consumi, la recessione con la conseguente piaga sociale di tanti posti di lavoro perduti: tutti sintomi chiaramente presenti anche oggi, a conferma che di un male molto simile si tratta. Ma mentre l’Europa, purtroppo, scelse di affrontare la crisi e la povertà affidandosi alla sciagurata e funesta medicina dei nazionalismi e dei totalitarismi, gli Usa intrapresero una strada ben diversa, che finì col salvare il Paese e i suoi ideali, ovvero la strada della ripresa dell’etica del lavoro, dell’intervento statale basato sulle geniali visioni economiche di John Maynard Keynes, autore della «Teoria generale dell’occupazione»: tre milioni di lavoratori disoccupati vennero assorbiti in una serie di grandi lavori pubblici, dove il ruolo dello Stato nell’attività produttiva e nel processo economico diveniva centrale per risollevare le sorti della nazione e ridistribuire verso il basso la ricchezza. La realizzazione di infrastrutture e la fondazione del Welfare State (Stato assistenziale) per proteggere la forza lavoro senza impiego, furono i cardini non solo della «rivoluzione» rooseveltiana che trasformò gli States in una vincente potenza mondiale, ma anche di ogni moderna concezione liberale. Cardini che oggi molti disconoscono, e vorrebbero dimenticare. Se questa ricetta storica sia ancor oggi applicabile, magari in versione riveduta, non sta a me giudicare. Certo è un imperativo etico tener conto delle istanze da lei ricordate, perché è proprio nei periodi di crisi che rischia di approfondirsi il fossato tra i deboli e i più fortunati, compromettendo – oltre all’equilibrio del corpo sociale – il bene comune.

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