mercoledì 19 maggio 2010
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Questa crisi economica ce lo ha insegnato: i dati statistici possono dimostrare tutto e il contrario di tutto, vanno interpretati. Quelli di giornata (ne parliamo a pagina 4) ci arrivano dalla Cisl e dall’Istat e ci dicono, rispettivamente, che l’occupazione va male e l’export bene. La contraddizione, almeno in questo caso, è solo apparente. Il sindacato, giustamente sensibile al futuro degli occupati, rileva anche una difficoltà delle imprese a riprendere la strada della crescita: secondo i dati presentati è realistico pensare che solo un’azienda su tre aggancerà la ripresa. L’affermazione sembra un po’ allarmistica e ricorda quella fatta in settembre dall’allora presidente del Comitato piccola industria di Confindustria, Giuseppe Morandini: alla riapertura delle aziende dopo le vacanze estive un milione di imprese era a rischio chiusura. Sappiamo che, per fortuna, così non è stato.Tuttavia il problema esiste. Questa crisi obbliga le imprese a rivedere completamente il proprio modo di stare sui mercati e chi – per incapacità, ignavia o fiducia nello stellone italico – resta ancorato al passato, anche perché corroborato dagli ottimi risultati ottenuti fino a poco tempo fa, rischia di svegliarsi in corsia di emergenza e senza possibilità di soccorso.In questa situazione però il nostro Paese può vantare la fortuna di avere un campione significativo di aziende – proprio quel 30% di cui parla la ricerca Cisl – che, avendo da tempo intrapreso la strada del cambiamento, già intravede i primi risultati positivi. L’export in aumento del 17% a marzo di quest’anno sullo stesso mese del 2009, con un import che sale del 22,6%, sta a significare esattamente questo. Le imprese migliori, indipendentemente dalle loro dimensioni aziendali, hanno utilizzato la crisi per resettare le loro modalità di azione strategico-organizzative individuando nuovi percorsi di successo che cominciano a dare i primi risultati. Che poi l’export sia per un +17% realizzato con Paesi extra-Ue, dimostra che l’innovazione sperimentata è più forte della pur forte (almeno fino a poche settimane fa) moneta europea. Queste imprese di frontiera, e qui sta la fortuna per il Paese, sono "maestre" per chi voglia seguirle: la via tracciata è proposta a tutto il mondo imprenditoriale nazionale che, nella difficoltà, si trova ad avere un modello di successo da poter imitare.Le peculiarità di questo modello emergente vanno dunque studiate e riproposte, nell’interesse di tutti, a chi ne può trarre beneficio per ridurre – e crediamo di molto – la percentuale di aziende che questa crisi consegnerà al fallimento. Fin d’ora è chiaro però, e veniamo all’altro dato da cui siamo partiti, che la ripresa richiederà, a parità di risultati, meno occupazione. Cosa che pone un grave problema, più educativo che sociale ed economico. Come mai, altrimenti, più di novantamila posti di lavoro, secondo Confartigianato, non trovano risposta nei settori seguiti da quell’associazione? E come mai nel Nord industriale, ma anche nel Sud agricolo, non cala la domanda di lavoro immigrato? Inutile nasconderselo, la crisi sollecita cambiamenti a tutti: imprese, sindacati, singole persone. Tutti dobbiamo impegnarci a ricercare nuovi equilibri che salvaguardino vecchie ricchezze.
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