sabato 27 maggio 2017
Nel Sud Est asiatico l'influenza dei musulmani radicali è un rischio per i cristiani: sempre più spesso gli studenti vengono definiti kafir . infedeli.
Disordini a Giacarta contro l'ex governatore di Giacarta condannato per blasfemia (Ansa)

Disordini a Giacarta contro l'ex governatore di Giacarta condannato per blasfemia (Ansa)

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A distanza di tempo dalla condanna a due anni di carcere, il 9 maggio scorso, del governatore uscente di Giakarta, Basuki Tjahaja Purnama, cristiano di origini cinesi, l’incredulità è ancora il sentimento dominante. Lo è tra i molti sostenitori di Ahok (il nome cinese-hakka datogli dalla famiglia), ma anche tra i tanti all’interno e all’estero che si interrogano ora sulle prospettive dell’Indonesia. L’immenso arcipelago del Sud-Est asiatico, più popoloso Paese musulmano al mondo con i suoi 260 milioni di abitanti, che ha saputo concretizzare una lunga eredità storica di tolleranza e aderire ai principi di uguaglianza della sua ideologia di Stato, la Pancasila (la carta dei 'cinque princìpi' alla base dell’Indonesia democratica), vede ora il rischio di cadere in una spirale di rivendicazioni dell’islamismo estremista e politico.

Il pericolo è quello di uno stato d’assedio delle istituzioni, di individui e gruppi pronti a giocare la carta della tensione per garantirsi fette di potere. Con una maggioranza di musulmani moderati e consistenti minoranze che sommano complessivamente il 12 per cento della popolazione, tra cui il 10 per cento cristiani, potenziali vittime di una pressione integralista che si manifesta sempre con maggiore intensità e che ha avuto in Ahok un obiettivo altamente simbolico.

Cinquantenne, laicista, liberista con sensibilità sociale, esponente insieme di una minoranza religiosa e etnica, l’influente politico del Partito democratico indonesiano per la lotta e stretto alleato dell’attuale presidente Joko Widodo, di cui era stato vicegovernatore nella stessa capitale prima di prenderne il posto nell’autunno 2014, è stato abbattuto politicamente con la sconfitta nel ballottaggio per la carica di governatore di Giakarta il 19 aprile e incarcerato il 9 maggio con una pena addirittura superiore a quella chiesta dal pubblico ministero. Entrambi gli eventi sono conseguenza di un’accusa di blasfemia pretestuosa avanzata dagli estremisti, che per sostenerla hanno avviato massicce proteste di piazza.

Arriverà il tempo dell’appello, già chiesto, ma difficilmente quello della riabilitazione e di una nuova prospettiva pubblica per un politico promettente, esponente di una generazione non connessa con le forze armate e nemmeno nostalgica dei regimi semidittatoriali di un tempo che potrebbe garantire all’Indonesia un ruolo di primo piano e alla popolazione un benessere e una democrazia finora centellinati. In ogni caso, il Paese si avvia a un contrasto ormai diretto tra i suoi principi post-indipendentisti e le pressioni di chi vorrebbe farne un califfato sottoposto alla Sharia.

Gesuita indonesiano, docente alla Scuola di filosofia Driyarkara di Giakarta, padre Setyo Wibowo ammette che negli ultimi anni la tensione religiosa è cresciuta. «Sicuramente non un bene il confronto in corso con il fondamentalismo guidato dal Fronte dei difensori dell’islam. Peraltro in un tempo in cui le due maggiori organizzazioni musulmane, Muhammadiya e Nahdlatul Ulama, tradizionalmente tolleranti e orientate più a attività benefiche che al controllo politico, vanno perdendo influenza». «Di solito – elabora padre Wibowo – questo tipo di islam si amalgamava con le culture locali ma dal movimento che portò alla fine del regime dispotico di Muhammad Suharto nel 1998, i musulmani ispirati da ideologie di origine straniera hanno guadagnato terreno, soprattutto nell’educazione.

Il wahhabismo ha iniziato a influenzare pesantemente i nostri giovani, a partire dalla sue roccaforti: l’Istituto di Tecnologia di Bandung e il Partito per la giustizia sociale. Oggi vi sono diversi gruppi estremisti attivi sul piano socio-educativo e ancor più preoccupante per noi è che nelle scuole, a partire dagli asili, abbiamo molti insegnanti radicalizzati». «Nella vita di tutti i giorni, i cristiani non hanno molte conseguenze dalla radicalizzazione, ma notiamo che sovente i nostri studenti vengono definiti kafir, infedeli, e questo è per molti di loro traumatico. Va diffondendosi anche l’uso del hijab».

Una considerazione del gesuita chiama in causa proprio la tolleranza insita nella società che ha lasciato varchi all’estremismo: «Alla fine degli anni Novanta e nel primo decennio di questo secolo, molti di noi ora cinquantenni eravamo stanchi della Pancasila, perché ci sembrava troppo retorica e a volte strumentalizzata politicamente. Questa indifferenza o critica ha però creato spazi in cui si sono infiltrati gli islamisti militanti».

Potrebbe essere quindi troppo tardi? Come ha ricordato all’agenzia Fides padre Agustinus Ulahayanan, Segretario della Commissione per il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale cattolica indonesiana, «dalla vicenda di Ahok possiamo imparare una doppia lezione. Positiva nel senso della reazione pacifica, nell’alveo della democrazia, dei cristiani che credono nel bene comune e nutrono un profondo rispetto per la Pancasila. Una lezione anche negativa, però, perché dobbiamo prendere atto della debolezza del sistema giudiziario e dell’influenza che su di esso hanno i gruppi radicali». Possibile pensare a una reazione, sia tenendo conto della situazione attuale, sia delle caratteristiche socio-culturali del Paese? «La cosa più importante è ora dire al presidente e al governo che devono farsi carico di questa situazione, a partire dalle scuole. Occorre chiarezza sull’ideologia alla base dell’insegnamento, altrimenti i rischi sono elevati», ricorda ancora il gesuita Setyo Wibowo. «Nel caso indonesiano, se i leader hanno una chiara visione dell’identità del Paese non abbiamo problemi, ma se si lascia spazio a individui che si autoproclamano leader dell’islam e altri che predicano intolleranza alla televisione, nelle scuole o altrove dobbiamo preoccuparci perché inevitabilmente raccoglieranno seguaci. In Europa la gente tende a avere più autonomia, forse per educazione, ma in Asia la gente tende a valutare positivamente un potere paternalistico, a rispettare e seguire i leader».

Più positiva la visione di monsignor Pius Riana Prapdi, vescovo della diocesi di Ketapang e a capo dell’organizzazione per la Giornata asiatica dei giovani che si terrà quest’estate proprio in Indonesia, per la prima volta in un Paese musulmano. Il Paese che si appresta a ospitare migliaia di giovani cattolici di vari Paesi rischia davvero una deriva fondamentalista? «Generalmente parlando, il mondo ha molto da imparare dalla capacità dell’islam indonesiano di sviluppare una teologia inserita nella società multiculturale. La Pancasila resta centrale anche per la maggioranza dei musulmani nati e cresciuti in un contesto segnato dalla diversità. Spesso i mezzi d’informazione sembrano trasmettere l’idea di un Paese assediato dall’estremismo, sottolineando eventi provocati da piccole fazione estremiste. Non ci si può nascondere le difficoltà, tuttavia credo sia importante sottolineare i segnali positivi come, ad esempio l’accettazione e il sostegno che il governo ha dato alla nostra iniziativa per i giovani dell’Asia».

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