Cosmesi o vera strategia nella politica di Trump?
mercoledì 20 dicembre 2017

La National Security Strategy (Nss) non è una guida operativa della politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti. Si tratta piuttosto di un documento che consente di fornire "l’interpretazione autentica" delle scelte di ogni amministrazione Usa in carica rispetto ai suoi obiettivi prioritari e alle modalità con le quali si intende perseguirli. Trattandosi di una strategia che deve mantenere la sua validità per un certo numero di anni, una certa genericità le è per così dire consustanziale. Allo stesso tempo, un raccordo tra le affermazioni che essa contiene su una quantità di temi e la messe di dichiarazioni (e tweet) presidenziali, è ovviamente necessario: proprio per la diversa scala temporale sulla quale essa si dovrebbe stagliare. Nel caso di Trump, poi, è evidente che tra il presidente e gli stessi vertici della sua amministrazione non sempre è immediatamente osservabile una ferrea coerenza. Detto in termini più brutali, il segretario di Stato Tillerson e quello alla Difesa Mattis, così come il Consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e persino talvolta il Capo dello stato maggiore congiunto Dunford, si incaricano spesso di "registrare" e smussare – quando non quasi rettificare – le uscite del loro Commander in chief.

Fatte queste doverose premesse, l’analisi della NSS-2018, quella diffusa lunedì dall’amministrazione, suscita più di una perplessità. Per almeno un aspetto essa è coerente con la gran parte delle dichiarazioni del presidente fin qui registrate: la volontà di collegare ciò che ci si propone di compiere con le promesse della campagna elettorale, facendo nel contempo attenzione a rivendicare quanto già è stato realizzato. America First!, insomma, ora, come durante le primarie e la sfida con Hillary Clinton. Rispetto ai contenuti, viceversa, il documento, persino più lungo dell’ultima, verbosa NSS-2015 di Barack Obama, appare in contraddizione con la volontà fin qui manifestata dal presidente in svariate occasioni.

Procediamo con ordine. I quattro pilastri della NSS-2018 sono sostanzialmente dei "classici": proteggere il popolo e il territorio degli Stati Uniti; promuovere la prosperità economica; affermare la pace attraverso la forza (si vis pacem para bellum); e alimentare gli interessi e i valori americani nel mondo. Per più di un aspetto, qualcosa di straordinariamente bipartisan, eppure così distante da quanto il presidente è andato fin qui affermando. L’accento sulla necessità strategica di mantenere l’America come un polo centrale di innovazione a livello globale – in tutti i sensi e in ogni campo – è invece l’elemento più inedito delle quasi 70 pagine rese note lunedì.

La sensazione di molti osservatori è che il documento, oltre a essere comunque incoerente e di scarso spessore, rifletta più che altro una volontà cosmetica, quella cioè di voler rassicurare, in particolar modo agli alleati, sulla continuità di fondo nella politica estera di Trump rispetto alle amministrazioni che lo hanno preceduto, oltre che su una minore estemporaneità nelle posizioni di volta in volta sostenute dal presidente e dal suo staff.

Se questa resterà la percezione prevalente – pur nella consapevolezza che sono innanzitutto i fatti a dominare le scelte della politica estera, come ricordava quasi due secoli orsono Lord Palmerston (11 settembre docet) – il rischio maggiore che questo documento corre è quello di essere ignorato perché inutile per comprendere le linee guida della politica estera e di sicurezza dell’America di Trump. Tanto per essere concreti, nel documento si sostiene la rilevanza degli alleati europei e della Nato, ma nella realtà gli uni e l’altra sono stati considerati meno di zero, quando Washington ha deciso di annunciare che avrebbe spostato la sua ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme o quando Trump ha deciso di sabotare l’accorso sul nucleare iraniano.

In compenso, la Cina, nella parte conclusiva, è esplicitamente indicata come un rivale strategico che "mette in pericolo i flussi commerciali e minaccia la stabilità della regione" indo-pacifica: una conclusione che non potrà non irritare Pechino, quindi non la scelta più lungimirante nel pieno caos della crisi nucleare nordcoreana. Nell’introduzione è viceversa la Russia a essere chiamata in causa, sia pur senza essere nominata, quando si afferma che potenze rivali "utilizzano la propaganda e altri mezzi per cercare di screditare la democrazia", avanzando "visioni anti-occidentali" e diffondendo "false informazioni per creare divisioni" tra gli Stati Uniti e i loro alleati. Mosca non ha gradito; e la parentesi idilliaca dei giorni scorsi nei rapporti russo-americani – dovuta al passaggio di informazioni da parte della Cia all’Fsb che hanno consentito di sventare non meglio precisate minacce – si è già esaurita.
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