venerdì 9 giugno 2023
Viaggio nei centri di detenzione per chi non ha il permesso di entrare negli Stati Uniti
Lo Houston Contract Detention Facility, alla periferia della metropoli texana

Lo Houston Contract Detention Facility, alla periferia della metropoli texana - Molinari

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«Passo la maggior parte del mio tempo a letto. Cerco di dormire per non pensare a quello che sto vivendo o a quello che succederà. Sono sempre più debole». Victor, salvadoregno, ha passato 65 giorni nella Houston Contract Detention Facility, alla periferia nord della metropoli texana, costruito e gestito da CoreCivic, l’azienda che ha l’appalto di decine di penitenziari negli Stati Uniti. Le sue parole sono riferite dall’associazione Grassroots che ha negoziato un raro accesso a una parte del centro per una manciata di giornalisti – a patto che questi non si avvicinino agli immigrati e non facciano domande. I cellulari sono stati sequestrati all’entrata. Questo non è un centro di smistamento. È una prigione. Ci sono muri di cinta di sette metri coperti da filo spinato. Una sala di sorveglianza per chi è a rischio di suicidio e un’unità di segregazione, nota fra i detenuti come la ghiacciaia. «Sono stato separato dai miei amici. L’unica cosa cattiva che ho fatto è stata attraversare il Rio Grande e chiedere aiuto agli agenti della migra, ma sono stato punito con due giorni nella ghiacciaia. Non so perché. Non ho ucciso, non ho rubato. Non merito questo. Ho l’emicrania e il mal di pancia perché tutti i giorni ci danno lo stesso cibo e non è mangiabile. Non sei nessuno quando sei qui dentro». Questo è Manuel, honduregno, al centro da 48 giorni.


Un quarto dei reclusi per ragioni migratorie si trova nelle strutture dello Stato al confine col Messico. Chi non trova uno sponsor, o lo perde, finisce qui. Con Biden è cambiato poco

In questa prigione, gli immigrati passano un’ora all’aperto al giorno – il minimo imposto dalla legge federale – in un cortile da dove si vede solo il cielo. Il resto della giornata è trascorso in una cella di gruppo, che ha i bagni a vista. Fino a 48 uomini o donne, a seconda del settore, assistono a ogni mossa reciproca. Le coppie sono separate e non possono scambiarsi notizie. I letti sono arrugginiti, i muri spogli, i neon abbaglianti, la sorveglianza continua con telecamere e guardie. Miguel dice di provare un senso di paura e ansia continuo, peggiorato da quando è stato spostato a una nuova cella di gruppo, dopo che aveva cominciato a farsi degli amici. «Questa è una società carceraria privata e in ultima analisi è responsabile nei confronti dei suoi azionisti, non delle persone detenute», commenta Silky Shah, direttore dell’associazione non profit Detention Watch Network. Ai parenti dei detenuti è consentita una visita per settimana, attraverso un vetro. Ma è raro che ci siano visite. Le famiglie sono lontane e non sono state informate della detenzione dei loro cari. Molte non ne hanno notizie da settimane.

Il Texas è il ground zero di quella che Papa Francesco ha recentemente definito la grave situazione dell’immigrazione al confine sud negli Stati Uniti e che l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca non ha alleviato quanto molti speravano. L’affollamento dei centri texani è infatti la prova che le regole restrittive volute dall’Amministrazione democratica stanno funzionando. Con 2.018 chilometri di confine con il Messico, il Texas ospita più strutture di detenzione per immigrati di qualsiasi Stato americano, 26 in tutto. Può detenere 34.767 migranti al giorno (un quarto di quelli ospitati in tutte le strutture americane) in centri costruiti dal 2005, quando le società carcerarie hanno spinto il Congresso verso una progressiva privatizzazione della gestione degli arrivi illegali. Da allora la custodia di uomini, donne e persino bambini senza documenti di soggiorno è diventata sempre meno amministrativa e sempre più punitiva. I l centro di Houston, la settimana scorsa, era pieno, conteneva circa 900 persone rispetto a una capacità totale di 905. Se i suoi ospiti non potevano parlare, le statistiche rivelano la loro identità e la loro storia. « La maggior parte sono cittadini di un Paese centroamericano, ma cominciamo a vedere anche afgani e sudanesi – spiega Shah, la cui organizzazione è fra le più attive in Texas –. Sono finiti qui perché hanno attraversato il confine senza avere uno sponsor negli Stati Uniti e senza riuscire a prendere un appuntamento con un agente per un colloquio. Quasi tutti verranno deportati».

Per capire come si approda in una di queste celle, bisogna sapere che a maggio è scaduto il famoso “Titolo 42”, la misura voluta da Donald Trump durante la pandemia per rimpatriare immediatamente chi non aveva documenti d’ingresso che ha impedito a oltre 2 milioni e mezzo di persone di rifugiarsi negli Usa. La regola, che era stata denunciata come inumana e illegale perché il codice federale Usa sancisce il diritto di asilo, è stata sostituita da un mosaico di regolamenti che rende l’ingresso negli Stati Uniti simile a un giro di roulette. « I più fortunati in questo momento sono cubani, nicaraguensi, venezuelani, ucraini e haitiani – prova a spiegare, con un sospiro paziente, Karina Hernandez, direttrice del centro di transito per migranti della Caritas di Houston – fino a 30mila al mese possono presentarsi al confine e chiedere asilo. La loro più grande fortuna è che in attesa di una risposta possono lavorare». Infatti è insolito che un cittadino di questi Paesi finisca in un centro di detenzione. Un’altra novità voluta da Biden è lo sponsor: gli immigrati che hanno trovato una famiglia, una persona o una comunità (spesso una parrocchia) disposte a garantire per loro possono entrare e presentare domanda di asilo. Il loro problema è che non sono autorizzati a lavorare finché il percorso legale, che può durare fino a due anni, non giunge al capolinea. «Alcuni finiscono in detenzione se perdono lo sponsor e non hanno più nessuno che li mantenga», precisa Shah.

Per tutti gli altri, la fortuna gioca un ruolo ancora più grande. Sempre l’Amministrazione democratica ha introdotto un’applicazione per telefono intelligente attraverso la quale chiunque arrivi nel nord del Messico può prendere appuntamento con un agente per dimostrare di aver ragioni solide di temere un ritorno nel proprio Paese. Ma gli appuntamenti sono solo mille al giorno e la app è instabile. « Ho passato giorni a Ciudad Juàrez attaccato al telefono e ricevevo solo errori – spiega Enrique Perez, venezuelano che era stato respinto al confine perché la quota giornaliera di 30mila ingressi era già stata raggiunta –. Quando ho avuto la conferma, era come se avessi vinto la lotteria». Perez, incontrato alla Caritas di Houston, avrà un’udienza in tribunale fra sette mesi. Nel frattempo, spera di trovare lavoro facendo pulizie. « Poi devo far venire mia moglie, i miei due bambini piccoli e mia madre. Non possono restare in Venezuela», dice, gli occhi arrossati e lo sguardo ansioso. Chi non ha né sponsor né appuntamento e non proviene da un Paese protetto, e sono la maggioranza, riceve un ordine di espulsione. Per alcuni è immediata e si conclude nel giro di pochi giorni in Messico. Per molti altri, se i centri al confine sono sovraffollati o il Messico non accetta più ritorni, include un passaggio in un centro di detenzione. I n teoria, finire in una “prigione per immigrati” può aprire alcune porte: durante la detenzione si può cercare di presentare domanda d’asilo e contestare in tribunale l’ordine di deportazione. Ma, anche in questo caso, è quasi come veder sorteggiare il proprio numero al lotto: pochissimi detenuti ottengono un avvocato pro bono e solo il 7% finisce per restare. Gli altri – soprattutto adulti soli – possono deperire per settimane prima di essere caricati su un aereo della Homeland Security e rispediti a casa con una schedatura che vieta loro di mettere piede negli Usa per cinque anni. Chi arriva con i figli ha più probabilità di essere rilasciato dopo qualche giorno (Biden ha interrotto la detenzione familiare, ma sta considerando di reinserirla) con una cavigliera per la geolocalizzazione e un coprifuoco, in attesa dell’appuntamento davanti al giudice.

La realtà del Texas rivela che la frontiera fra Messico e Stati Uniti non è un colabrodo. Gli ingressi sono calibrati e centinaia di migliaia di persone sono respinte. I centri di detenzione – prigioni – sono pieni. Eppure le continue notizie di “numeri record di arrivi” alimentano un’ansia che i sondaggi fotografano bene: il 58% degli elettori sostiene che Biden non fa abbastanza per fermare il flusso dei disperati. Le elezioni presidenziali sono fra poco più di un anno.

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