sabato 14 febbraio 2015
Si coltiva meno marijuana ma non diminuisce l'export di droga. La legalizzazione? Non è la formula magica anti-trafficanti (Lucia Capuzzi)
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Iguala-Denver. Arduo immaginare due luoghi più distanti. E non solo per i 2.500 chilometri che li dividono. Il capoluogo dello Stato del Colorado ha ben poco in comune con il paesone di 200mila abitanti abbandonato lungo l’autostrada che conduce alla più nota e attraente Acapulco, un tempo la perla del Pacifico. A unire ciò che la geografia separa, sono le impalpabili leggi del mercato globale per cui le frontiere sono poco più che linee sulla carta. Non c’è confine in grado di fermare il business, legale o illegale. Sono domanda e offerta a dettare le regole. E ogni decisione in grado di modificare la prima, si ripercuote necessariamente sulla seconda, e viceversa. Ancor più se la posta in gioco è il multimiliardario commercio delle droghe.   Partiamo da Denver, in Colorado: questo è l’unico Stato – insieme a Washington D.C. – in cui la vendita di marijuana per fini cosiddetti 'ricreativi' è legale da ormai 13 mesi. Dopo i referendum di novembre, Oregon, Columbia e Alaska hanno dato il primo via libera alla liberalizzazione della cannabis. In altri 23 Stati, inoltre, è consentito il commercio della sostanza per scopi terapeutici. L’erba legale – dove è già disponibile – rappresenta un pericoloso “concorrente” per quella illegale, prodotta a sud del Rio Bravo e introdotta negli States dai potenti narcotrafficanti messicani. Rispetto alla vicina d’oltrefrontiera, la marijuana “made in Usa” è di qualità superiore e certificata. Per rendere competitiva la “ mota” – come viene definita la cannabis messicana – i narcos dovrebbero tagliare prezzi e profitti. O cambiare “negocio” (business). Secondo quanto indicano le statistiche della polizia di frontiera statunitense, la criminalità organizzata avrebbe optato per la seconda strategia. Le tonnellate di marijuana sequestrate al confine l’anno scorso si sono ridotte del 24 per cento rispetto al 2011. Per il quotidiano Washington Post  – che cita fonti federali e locali – la diminuzione totale sarebbe del 37 per cento. Il calo, comunque, non è stato brusco. Negli ultimi anni, a parte qualche oscillazione, si nota una tendenza alla contrazione dei quantitativi di marijuana intercettati lungo la 'Linea', la frontiera tra Messico e Usa. Il che fa presupporre una riduzione del traffico. A prima vista, il dato sembra positivo. A leggere con attenzione i numeri, incrociandoli con quelli dell’Agenzia antidroga Usa (Drug and Enforcement Administration, Dea), però, si nota un contemporaneo aumento delle confische di eroina: 2.196 chili nel 2013 contro 846 nel 2009, oltre il doppio. Rispetto al passato, inoltre, il 45 per cento dello stupefacente proviene dal Messico, che ha sostituito l’Afghanistan e il Sudest Asiatico come principale fornitore. Dall’altra parte della Linea, non arriva più solo “ brea negra”  (catrame, come viene chiamata l’eroina messicana per via del colore scuro) di qualità medio-bassa, ma polvere candida, ottenuta aggiungendo opportuni additivi chimici alla “gomma d’oppio” coltivata nella Sierra Madre. Sono sempre le cifre della Dea a mostrare un inquietante aumento dei sequestri di metanfetamine: se nel 2009 le autorità avevano intercettato poco più di 3mila chili, l’anno scorso ne hanno scoperti quasi 16mila. Il 90 per cento delle pasticche è di origine messicana. Arriviamo, dunque, a Iguala. Prima di finire sulle pagine dei media mondiali per la scomparsa in massa di 43 studenti, la città era conosciuta in Centro America come lo snodo chiave del viaggio dell’eroina dai campi di papaveri delle montagne del Guerrero agli States. Iguala è il mercato in cui i potenti cartelli della droga, in particolare quello di Sinaloa, acquistano la “gomma” dagli intermediari. Con quest’ultimo termine si indicano le diverse bande – come Los Rojos, Los Pelones, Guerreros Unidos – che trattano con gli agricoltori poveri della Sierra, offrendo loro circa 900 dollari al chilo, il doppio rispetto a uno stipendio legale. Briciole, però, paragonato a ciò che gli intermediari ricavano come commissione dalle grandi organizzazioni criminali. A queste ultime non conviene controllare l’intera catena produttiva: più sbrigativo far fare il lavoro sul terreno ai malviventi locali, ben radicati nelle montagne. Questo spiega il proliferare dei piccoli gruppi di trafficanti, i cosiddetti “cartelitos”, in concorrenza fra loro. E il dilagare della violenza in Guerrero, nuovo epicentro della narco-guerra, con il record di nazionale di oltre 1.200 vittime nel 2014. La stessa sparizione dei 43 ragazzi è legata al conflitto fra Los Rojos e Guerreros Unidos. Anche la crescente pressione delle mafie per “conquistare” le istituzioni municipali e statali, mediante la corruzione sistematica, è parte di questa nuova “guerra dell’oppio”. Il giro d’affari in palio è estremamente redditizio: il traffico d’eroina vale almeno un miliardo di dollari. Sulla stessa cifra si aggira pure quello delle droghe sintetiche. Un guadagno molto maggiore rispetto all’erba i cui incassi – sottolinea Edgardo Buscalia, esperto di sicurezza della Columbia University – rappresentano una percentuale minima nella narco-economia. Eroina e metanfetamine, inoltre, sono pure più convenienti della cocaina perché a differenza di quest’ultima, importata da Colombia, Perù e Bolivia, sono prodotte in loco. Le pasticche vengono realizzate in laboratori clandestini nascosti sulle montagne messicane. L’unica aggiunta – non di poco conto – sono i cosiddetti “precursori chimici” importati dall’Asia, in genere via mare. Da qui, la lotta feroce tra i narcos per il controllo del mega porto di Lázaro Cárdenas, in Michoacán, confinante con il Guerrero, e vittima di un’escalation criminale. La tendenza verso la legalizzazione della marijuana negli Usa, dunque, non ha fatto altro che dare ulteriore impulso alla ristrutturazione del traffico già in atto. Le pasticche dilagano nelle discoteche Usa, soprattutto fra i giovanissimi. Da cinque anni, inoltre, la richiesta statunitense di eroina è in crescita, con il drammatico record di 600mila di consumatori nel 2014. A questi si aggiungono i dieci milioni di dipendenti da psicofarmaci, un “target” interessante per i lungimiranti narcos. Per cui, oltretutto, i panetti di eroina e le confezioni di metanfetamine – proprio come quelli di cocaina – sono più maneggevoli da trafficare rispetto alla voluminosa “erba”. Risultato: anche i contadini del Triangulo Dorado  – Chiahuahua, Sinaloa e Durango, cuore “verde” del Paese – si stanno affrettando a sostituire le piante di “ mota”  con papaveri sgargianti. Mentre i laboratori clandestini aumentano nella zona. Una scelta quasi obbligata per la maggior parte degli agricoltori, data la latitanza dello Stato, l’assenza di infrastrutture e di alternative di sviluppo legali. Di tale situazione, approfittano i cartelli, abilissimi nel sostituirsi alle istituzioni ed esercitare un potere parallelo, con la complicità, in genere, dei politici locali. È questa l’origine della loro forza. Insieme alle 2mila armi che, dal nord della Linea, fluiscono nelle mani delle mafie messicane ogni giorno, secondo un recente studio Centro de Estudios Sociale y Opinión Pública di Città del Messico. Corruzione, armamenti, fragilità delle istituzioni sono le costanti del potere dei narcos. Il resto, ovvero il tipo di business  illegale, varia in relazione all’evoluzione del mercato: Buscaglia non si stanca di ripetere che il commercio di droga è solo uno delle 22 fattispecie di delitto gestiti dai cartelli. Per questo – al di là delle divergenti posizioni in materia – la “politica della marijuana”, specie se decisa e attuata in ordine sparso e senza una concertazione globale, non è la formula magica con cui sconfiggere i narcos.
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