sabato 9 ottobre 2010
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La vita dei ragazzi gira ormai a pieno regime. Non solo le scuole hanno gli orari definitivi, ma gli allenamenti di calcio, le lezioni di chitarra, i corsi di nuoto e i doposcuola hanno già iniziato ad occupare, se non invadere, i pomeriggi della maggior parte degli studenti. I grandi non sono da meno, con il lavoro che si fa sempre più intrusivo nelle loro vite, complici le nuove tecnologie che dilatano senza misura il tempo dedicato alla professione. E così tra grandi e piccoli può diventare persino difficile incontrarsi in casa e parlarsi.In questa situazione il momento della cena rimane forse l’unica occasione rimasta per trovarsi insieme.Mangiare, infatti, prima che una necessità del corpo biologico o una formalità quotidiana è un atto di rapporto. Si mangia sempre con un tu, indipendentemente dalla consapevolezza che ne abbiamo. Ce lo testimoniano tristemente, a volte con la vita, le persone anoressiche: non basta che lo stomaco chiami per mangiare, occorre essere ben disposti verso l’altro per sedersi a tavola.I dati recentemente comunicati dagli specialisti sono preoccupanti: sotto i venticinque anni dieci ragazze su cento soffrono di disturbi alimentari con un’età media che si aggira sui quindici anni.Maria Gabriella Gentile, direttore del Centro per i disturbi del comportamento alimentare dell’ospedale Niguarda di Milano, struttura di riferimento nazionale, ha lanciato addirittura l’allarme baby-anoressia riferendosi a bambine di 9 anni, ricoverate magrissime ed emaciate.Troppo spesso però, oggi quando si parla di mangiare lo si fa medicalizzando la questione: la soluzione sembra solamente in mano a nutrizionisti, dietologi, psicologi. Computi calorici e strategie alimentari occupano intere pagine web e di carta, suggerendo a genitori angosciati percorsi che raramente colgono in pieno la questione. Occorre tornare a considerare il cibo come momento di piacere, sempre conviviale. È una sana esperienza constatare come spesso in compagnia si mangi di più e con più gusto; accade perché quando le cose vanno bene non ci si nutre solo di carboidrati, grassi e proteine, ma anche delle parole che i commensali si offrono reciprocamente. Per questo urge che la tavola torni al centro delle nostre serate, costasse anche la piccola fatica di aspettare chi torna dagli allenamenti o dall’ufficio. La cena va pensata come un appuntamento da preparare con cura e a cui dispiaccia mancare, nel limite del possibile.Allora, via le televisioni dalle cucine: se accese, saranno loro a parlare col potere di ammutolire le persone sedute attonite attorno al tavolo. E che il clima sia sincero e di condivisione, soprattutto non diventi un interrogatorio dei più grandi ai più piccoli.Perché un ragazzo abbia voglia di aprirsi e raccontare cosa gli è accaduto raramente funzionano le domande dirette. Per lui è molto più interessante ascoltare gli adulti che si raccontano in prima persona, che condividono le esperienze della giornata; a quel punto potrebbe venirgli voglia di dire liberamente la sua, di contribuire alla conversazione.La miglior prevenzione dei disturbi alimentari non viene fatta dentro studi medici, né con lezioni di educazione alimentare in scuole ridotte spesso a corsifici. Accade invece nelle nostre case, fra le quattro mura di cucine dove le padelle sfrigolano sul fuoco o i piatti girano nei microonde. A cena insieme, in un clima di affetto, rispetto e attenzione reciproca, abbiamo davvero il potere di rinnovare ogni sera l’esperienza del cibo come soddisfazione, dentro un rapporto che non soffochi, ma spalanchi all’universo.
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