martedì 8 settembre 2015
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Forse non ci rendiamo conto di quante cose stiano cambiando, nella nostra coscienza e nella coscienza della politica, per gli  sviluppi dell’immigrazione, le cui dimensioni e immagini modificano giorno dopo giorno percezioni, sentimenti, scelte, e provocano quel 'senso di spaesamento' che prende chiunque si trovi di fronte al nuovo, al non previsto, a svolte epocali. I cambiamenti e i paradossi più repentini riguardano le politiche di molti Stati europei. La Germania, ritenuta per definizione avara di aperture, e artefice d’una politica di durezza ed esclusione, mostra un altro volto, Angela Merkel sembra all’improvviso simbolo di un’Europa accogliente, non più matrigna. Altri Paesi, assenti quando l’Italia chiedeva la ripartizione di quote, misure coraggiose, assunzione di responsabilità, invocano oggi una politica comune europea; mentre David Cameron in Inghilterra azzarda piccoli mutamenti di rotta rispetto alla precedente chiusura totale. Forse non tutti cambiano per buona volontà, ma s’intravede una presa di coscienza irreversibile: né l’egoismo di un solo Paese, né la buona volontà di uno o più Stati, risolveranno problemi che sono di tutti, e hanno colpito al cuore ogni europeo. Un inatteso indurimento s’è avuto nei Paesi ex comunisti, che almeno per memoria storica dovrebbero ispirare la propria azione alla solidarietà, e invece manifestano pesanti egoismi, se non peggio, quando vedono riprodursi, a parti rovesciate, quell’esodo che al crollo del comunismo chiedeva all’Europa libertà, come i profughi oggi chiedono vita, lavoro, aiuti. Infine, nei giorni scorsi l’Onu si è fatta sentire, in modo flebile, ma qualcosa ha detto, e non è escluso che, come grande assente nel dibattito di questi mesi, ricordi le proprie responsabilità, realizzi la grande svolta che si attende: l’attivazione decisa delle istituzioni internazionali per un dramma che investe l’Europa, il Mediterraneo, Paesi in guerra come la Siria e la Libia, altri ancora in Africa e Asia.  Un dato s’impone sugli altri, contro ogni diversa analisi e politica: l’immigrazione è questione europea, internazionale, nei fatti prima che nelle parole e intenzioni, e costringe tutti a impegnarsi per risolverla. Ma i mutamenti sono più profondi, chiedono all’Europa di ricordare qualcosa della propria storia, guarire dai mali che ancora si porta nell’anima, cambiare strada, guardare al futuro in modo nuovo.  Nell’Ottocento il Vecchio Continente ha affrontato la guerra dei ricchi contro i poveri e ha alzato muri per escludere i poveri dalla società visibile. Con assoluta crudezza, Thomas Robert Malthus voleva espellere dal «gran banchetto della natura» (oggi, le ricchezze disponibili) «gli intrusi» (le classi popolari), e i liberisti di allora sognavano uno Stato estraneo ai rapporti sociali, regolati dalla legge del profitto, dalla competizione più selvaggia. Ma la storia è andata da un’altra parte. È maturato lo «Stato sociale», il nuovo pensiero economico di John Maynard Keynes, la dottrina sociale cattolica, per regolare, disciplinare, umanizzare un mercato che, in preda all’anarchia, sarebbe esploso. Un gran lavoro osteggiato e ancora incompleto, ma essenziale. Anche oggi, poi, si elevano muri contro gli «invasori» ma, a differenza del passato, questi crollano in poche ore: in Grecia, Macedonia, Ungheria, Austria. E questo crollo sta provocando la caduta di un nuovo idolo, esaltato perfino da intellettuali di matrice liberale, come Piero Ostellino, Giovanni Sartori e altri, che con toni diversi all’inizio della crisi hanno obiettato al magistero pontificio sull’accoglienza degli immigrati (e degli ultimi), perché sarebbe nobile ma irreale. Per questa scuola di pensiero, i moniti che l’etica rivolge alla politica prescindono dalla società vera, parlano di una società che non esiste, ignorano quel principio di realtà tipicamente liberale che chiede di fare i conti con costi e benefici delle varie proposte. Oggi questa scuola di pensiero tace, perché non sa più rispondere a una domanda: è più realistico il muro che si vorrebbe alzare dentro e fuori di noi, o il principio d’accoglienza, che chiede un governo saggio, complesso, lungimirante, di un processo storico irreversibile?  La grande lezione di realismo, però, riguarda anche l’Onu e le istituzioni internazionali che continuano a essere silenziose di fronte alle tragedie dell’immigrazione e delle guerre. Esse per prime, insieme all’Europa, hanno lasciato andare alla deriva Paesi, aree, continenti interi, abbandonati a guerre che provocano genocidi, stragi, stermini, dimostrandosi impotenti perfino di fronte all’orrore e alla barbarie dell’Is e di chi colpisce cristiani e fedeli d’altre religioni come se la civiltà non fosse mai esistita. Non c’è stato, nel secondo dopoguerra, un periodo come quello attuale nel quale tanti e così vasti territori siano stati abbandonati a sé stessi, senza che alcuna autorità neanche provasse a intervenire, chiamando ciascuno Stato a dare il suo contributo.  Nessuno (o quasi) lo ricorda più, ma, lo Statuto dell’Onu (1945), afferma che i Popoli della terra sono «decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili dolori all’umanità»; e contiene una dettagliata normativa per garantire pace e sicurezza, interventi a favore delle popolazioni colpite dalle tragedie della guerra, a rischio di genocidio e dispersione. Il sogno che nel Novecento ha dato forza alle generazioni che avevano patito il totalitarismo è svanito, s’è tramutato in incubo per coloro che muoiono, o scappano dalla Siria, dal Medio Oriente, dall’Africa, senza che l’Onu abbia mosso un dito per aiutarli. L’Europa e l’Onu sono chiamate a un esame di coscienza di carattere storico, devono chiedersi come mai l’egoismo di tanti Stati provochi tragedie collettive così grandi, e quale sia la ragione della loro impotenza politica, che azzera principi e valori scritti in tutte le Carte dei diritti umani. Oggi non basta rispondere a queste domande con qualche aggiustamento, esse chiedono la riedizione solenne delle regole che fondano la convivenza planetaria. Il principio di realtà chiede di tornare ai valori d’umanità e libertà scritti nel Dna dell’Europa e dell’Onu, per realizzare una politica programmata, di condivisione dell’accoglienza e di integrazione, che affronti nei prossimi anni le cause e gli effetti dell’immigrazione. Se ciò non accadrà, non basterà neppure la compassione, che pure in questi giorni ha salvato l’Europa, perché sarà di nuovo inghiottita dalla paura e dalla pavidità.
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