martedì 25 settembre 2018
Una via alternativa al «reddito di cittadinanza»
Come creare occupazione senza fare nuovo debito
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Un tempo modi e procedure erano chiare: se c’era da rilanciare l’Italia sul piano occupazionale si faceva una politica di spesa in deficit, ma con un debito virtuale perché il denaro veniva ottenuto gratis dalla propria Banca centrale. Se invece c’era bisogno di sollevare le sorti dei più poveri si procedeva ad una redistribuzione della ricchezza per via fiscale: si prendeva ai ricchi e si dava ai poveri aumentando le imposte sui redditi alti. Poi è cambiato il vento politico, sono mutati gli umori, i valori, gli assetti istituzionali e tutto si è fatto più opaco e confuso.

Da un punto di vista istituzionale la novità di maggior rilievo è rappresentata dalla rinuncia da parte dei Paesi dell’Eurozona a godere del sostegno della Banca centrale europea. Memori dei tempi in cui l’inflazione galoppava a due cifre anche per la disinvoltura dei Governi nel finanziare spese in deficit con nuova moneta, nel momento di definire l’assetto organizzativo dell’euro venne deciso di tagliare la testa al toro negando ai Governi nazionali qualsiasi possibilità di accesso diretto al rubinetto del denaro. Obiettivo realizzato affidando il governo della moneta a una struttura indipendente che può prestare denaro a qualsiasi banca commerciale, ma neanche un centesimo agli Stati. L’effetto è stato che i Governi sono stati declassati al rango di 'aziende' che non hanno altro modo di finanziare i propri deficit se non chiedendo prestiti al sistema bancario e finanziario privato. Con due conseguenze piuttosto serie.

La prima conseguenza è di carattere finanziario: l’aggravio di spesa dei bilanci pubblici a causa degli interessi. Una somma che nel caso italiano rappresenta circa il 10% del gettito fiscale. La seconda è di carattere politico: l’inversione del rapporto di potere fra Governi e mercati a causa della dipendenza dei primi dai secondi. Dal momento che agli investitori interessa solo la salvaguardia dei propri investimenti, essi vigilano di continuo sull’operato dei Governi per capire se stanno compiendo scelte che possono compromettere la loro capacità di pagamento e al minimo dubbio alzano la posta secondo la regola che al debitore meno affidabile vanno richiesti interessi più alti. Il canale comunicativo utilizzato è quello dello spread che di fatto, ormai, è tenuto dai Governi in maggior considerazione del voto popolare.

Da un punto di vista culturale la novità di maggior rilievo è rappresentata da un diverso approccio al tema della povertà, della ricchezza e dell’equità. In passato non era molto radicata l’idea del self made man che si arricchisce esclusivamente per capacità propria. Difficilmente si concepiva la ricchezza come esclusivo merito personale, ma sempre come il frutto di un’azione collettiva che vedeva l’apporto della famiglia, dei lavoratori, dei fornitori, dello Stato stesso. Specularmente, da noi, la povertà non era mai stata concepita come una colpa personale, ma come una condizione dovuta in gran parte ad aspetti esterni: povertà familiare, ignoranza, malattia, incapacità di ottenere un lavoro. In definitiva ricchezza e povertà non erano considerati fatti privati, ma fenomeni collettivi su cui lo Stato ha il dovere costituzionale di intervenire per colmare le differenze. Per questo si concepiva il sistema fiscale non solo come una via di finanziamento della pubblica amministrazione, ma anche come canale di redistribuzione della ricchezza, attraverso la progressività fiscale prevista dall’articolo 54 della Costituzione. Ma oggi che ricchezza e povertà anche in Italia cominciano a essere largamente concepite come virtù e colpa di tipo personale, si tende a perdere di vista la funzione riequilibratrice del sistema fiscale e si reclamava a gran voce la flat tax. Misura che è diventata un cavallo di battaglia dell’intero centrodestra, ma che avvantaggerà solo i più ricchi, aggravando la situazione di ingiustizia odierna che – secondo una fotografia scattata dall’Ocse – vede il 52% del patrimonio familiare italiano nelle mani del 13% delle famiglie più ricche, mentre quelle più povere, pari al 37% del totale, ne detengono a mala pena il 3%.

Pur avendo perso di vista la funzione sociale della ricchezza, il Movimento 5 stelle ha vinto, invece, le elezioni promettendo il reddito di cittadinanza. E benché nessuno abbia ancora ben chiaro che cosa sia, tutti sono consapevoli del fatto che richiederà molte risorse. Ma come faranno i pentastellati a realizzarlo è un bel rebus, visto e considerato che il loro alleato di governo, la Lega di Matteo Salvini, è appunto decisa a ridurre il gettito fiscale a causa della flat tax, e che la prospettiva di fare più debito rischia di mettere in allarme i mercati, pronti a reagire con l’imposizione di tassi più alti sui nuovi prestiti. Si prospetta insomma un percorso che potrà, forse, portare a qualche risultato elettorale, ma che prepara le condizioni per un ulteriore impoverimento futuro dell’Italia e degli italiani, perché a più debito corrisponderanno inesorabilmente più interessi da pagare.

Un consiglio che si potrebbe dare a Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio per giocare un ruolo davvero positivo, è quello di cambiare prospettiva: invece di puntare a mettere nelle tasche dei disoccupati un’indennità di oltre 700 euro al mese, potrebbero attrezzarsi per offrire subito un lavoro retribuito a un milione di persone impiegandole in attività di pubblica utilità: difesa del territorio, recupero edilizio e stradale, potenziamento dei servizi alla persona. E poiché anche in questo caso salta fuori la domanda 'con quali soldi?', converrebbe recuperare la proposta elaborata da un gruppo di studiosi (Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini, Giovanni Zibordi) e dal compianto sociologo Luciano Gallino di sopperire alla perduta sovranità monetaria in ambito euro, con la creazione di una 'moneta complementare' sotto forma di certificati di credito fiscale. In pratica si tratterebbe di pagamenti da parte dello Stato con dei 'pagherò' che al momento della scadenza vengono quietanziati non con la restituzione di euro, ma accettandoli come pagamento delle imposte dovute. E proprio perché circolanti con la garanzia che alla fine possono essere utilizzati per il pagamento delle tasse, nessuno avrebbe problema ad accettare i certificati di credito fiscale come mezzi di pagamento al pari degli euro, pur non essendo convertibili in euro, mettendo di fatto in moto quell’effetto di moltiplicatore tipico degli investimenti pubblici che oggi tutti invocano. Un modo emergenziale per recuperare, seppur in modo transitorio, un minimo di sana sovranità monetaria finalizzata al rilancio dell’occupazione, senza contravvenire alle regole europee.

Del resto è ormai chiaro a tutti che questa Europa totalmente sbilanciata verso il mercato rischia di implodere per la sua incapacità di rispondere ai bisogni sociali. E allora qualche forzatura giuridico-economica può essere ciò che serve per rompere gli schemi e avviare quel processo di trasformazione democratica dell’Europa di cui tutti sentiamo il bisogno.

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