domenica 10 ottobre 2010
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La morte di quattro alpini della Brigata Julia in un agguato nella provincia di Farah conferma la sensazione che da qualche tempo i terroristi afgani abbiano messo nel mirino i soldati italiani con particolare cura. Il nostro contingente paga da tempo un caro prezzo alla liberazione dell’Afghanistan dal regime dei taleban (sono ormai 34 i morti dal 2004), e il quadro generale della missione Nato mostra tratti più che preoccupanti: a tre mesi dalla fine, il 2010 è già l’anno più cruento, con 572 soldati stranieri caduti rispetto ai 521 di tutto il 2009. La morte degli alpini Gianmarco Manca, Marco Pedone, Sebastiano Ville e Francesco Vannozzi è arrivata a sole tre settimane da quella del tenente Alessandro Romani, caduto in un’imboscata nella stessa provincia di Farah, e a sua volta ucciso solo un mese dopo il maresciallo Gigli e il caporalmaggiore De Cillis.Bisogna dunque chiedersi che cos’abbiano fatto i soldati italiani per “meritarsi” un tale accanimento. Alcune spiegazioni vengono offerte dalle cronache di guerra. I taleban, o chi per essi, sempre più spesso attaccano i convogli che garantiscono le linee di rifornimento, colpendoli addirittura quando sono nei depositi, com’è successo proprio nei giorni scorsi al confine col Pakistan. I quattro alpini erano di scorta proprio a uno di questi convogli, un lungo serpente di 70 camion, quando sono stati assaliti. Una strategia, quella dei guerriglieri, che si completa con l’ormai ben nota semina di ordigni esplosivi lungo le strade e che ha per obiettivo non tanto le truppe Nato quanto la ricostruzione dell’Afghanistan. Bloccare o intimidire i trasporti significa colpire al cuore un’economia già debolissima e, di fatto, disperdere le speranze di rinascita del Paese.Ricostruzione, rinascita. Sono temi che i nostri soldati conoscono bene. Sono, anzi, la loro specialità. Solo pochi giorni fa il generale David Petraeus, comandante in capo delle truppe Usa, ha detto di considerare un esempio per tutti il lavoro svolto dagli italiani nel Provincial Reconstruction Team di Herat. Petraeus sa di che cosa parla: fu lui, nel 2006, a imprimere una svolta decisiva in Iraq proprio partendo dal presupposto che dare lavoro e prospettive a tanti iracheni sbandati e armati fosse assai più proficuo che aumentare il volume di fuoco per combatterli. Ebbe ragione, così come nella regione di Herat stanno avendo ragione i nostri, che costruiscono ambulatori, strade, ponti, scuole e sanno proteggerli, per dare alla gente modo di usarli in sicurezza.Il nodo è tutto qui: il rapporto con la popolazione, che la politica del terrore cerca di risucchiare nel gorgo delle vecchie abitudini tribali, e il lavoro per la ricostruzione vuole invece ancorare a un’idea meno disperata di futuro. L’azione dei soldati italiani, “calda” e allo stesso tempo professionale, dev’essere ostacolata, se possibile fermata, perché incide su un punto cruciale: convincere la popolazione che gli uomini in uniforme sono lì per loro e non contro di loro.Ai taleban va benissimo che l’Afghanistan sia inondato di aiuti finanziari, purché questi si disperdano (sprechi, corruzione, errori…) senza produrre un vero cambiamento. Basta pensare che negli ultimi anni povertà e mortalità infantile sono addirittura cresciute, invece di diminuire, per capire come mai gli attacchi contro il nostro contingente si moltiplicano. Perché i soldati italiani costruiscono ogni giorno qualcosa per gli altri. Qualcosa che resterà in ciò che i talebani più ambiscono a controllare: l’animo degli afghani.
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