sabato 28 maggio 2016
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La concorrenza è nell’ottica dell’economia di mercato una virtù di grande valore. Attraverso la competizione tra le imprese la somma degli interessi “egoistici” e delle pulsioni al profitto dei singoli produttori viene trasformata dalla mano invisibile del mercato in prezzi più bassi che aumentano il surplus dei consumatori (ovvero la differenza tra il prezzo massimo che gli stessi sarebbero stati disposti a pagare per un determinato prodotto e quello che effettivamente pagano sul mercato). Peccato che la concorrenza intesa in questo modo produce degli effetti collaterali poco piacevoli.  La corsa al ribasso dei prezzi può essere infatti perseguita comprimendo costi del lavoro e benessere dei lavoratori, chiudendo un occhio sulle normative ambientali (le indagini recenti sul petrolio in Basilicata sono l’ennesima prova), spostando con pratiche legali ma elusive la propria sede in paradisi fiscali per non pagare le tasse nei Paesi in cui realmente si produce e si opera. Infine mercati dove le imprese illegali competono con quelle legali, la capacità delle prime di attingere a fonti di finanziamento a costo ridotto attraverso il riciclaggio di proventi illegali rischia di creare un vantaggio competitivo indebito a loro favore. E la moneta cattiva scaccia quella buona. La concorrenza in questa cornice produce sì vetrine piene di prodotti a prezzi molto accessibili ma anche umiliazione del lavoro, risorse in calo per sanità e welfare a disposizione degli Stati nazionali, ambiente insostenibile che mette a rischio la nostra salute e la stabilità del Pianeta e diffusione dell’economia illegale. La concorrenza per poter funzionare in modo virtuoso richiede dunque regole molto severe in grado di tutelare legalità, sostenibilità sociale ed ambientale. Cosa quasi impossibile in un’economia globale dove le imprese possono scegliere di andare a produrre nei Paesi dove queste regole sono più lasche e continuiamo ad assistere a casi di politica condizionata dalle lobbies. Se vogliamo trasformare la concorrenza da spettacolo di gladiatori a partita di rugby (se vogliamo civilizzare la concorrenza) dobbiamo fare almeno quattro cose. Primo, rinforzare regole e istituzioni globali. Secondo, premiare fiscalmente, utilizzando in modo opportuno l’imposta sul consumo, le filiere più sostenibili facendo pagare il costo a quelle meno sostenibili. Terzo, nelle regole degli appalti abbandonare la logica del prezzo al massimo ribasso combinandola con quella della qualità, della reputazione dell’azienda, della premialità per la responsabilità sociale ed ambientale (la direzione verso la quale timidamente muove la recente riforma degli appalti). Quarto, noi cittadini dobbiamo votare con il portafoglio premiando con le nostre scelte di consumo e risparmio le aziende che sanno creare valore economico in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile. Il potere più forte nell’economia globale non sono le grandi lobbies ma siamo noi che decidiamo con le nostre scelte il successo o il fallimento delle imprese. Sta a noi imparare ad usare questo potere mettendo in competizione le aziende sulla loro capacità di creare lavoro, di rispettare l’ambiente, di pagare le tasse nel nostro Paese senza metter sede nei paradisi fiscali. Solo se questo avverrà la concorrenza diventerà virtuosa e supererà la dimensione primitiva in cui oggi si svolge. Agonismo e competizione esistevano negli spettacoli dei gladiatori e nelle partite di rugby. Ma è il modo in cui queste energie sono incanalate nelle due differenti competizioni a fare la differenza.
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