sabato 1 ottobre 2011
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Quaranta anni, ma non li dimostra, di solito si dice a una persona che entra nella piena maturità quando le si vuol fare un complimento. Invece il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee), che proprio quest’anno arriva al traguardo dei quattro decenni di attività, i suoi 40 anni li dimostra eccome. Ma la notazione non è certo negativa, anzi. Questi quarant’anni evidenziano infatti il passaggio attraverso diverse fasi: da quella iniziale, pionieristica e a volte incerta (anche nei rapporti con Roma), a quella di una prima maturità, soprattutto per effetto della decisione di Giovanni Paolo II che chiamò a farne parte i presidenti delle Conferenze episcopali e non più (come era stato fino allora) i vescovi delegati dei singoli episcopati continentali; per giungere infine all’attuale stagione, segnata dall’identità di vedute e dalla comune consapevolezza dell’improcrastinabilità della nuova evangelizzazione dell’Europa, come sta emergendo chiaramente anche dai lavori dell’Assemblea plenaria di Tirana. Oggi gli episcopati del continente sono più uniti. Tra loro e con il Papa. E questa è una bella notizia, perché la sfida che attende la Chiesa nel Vecchio Continente non può fare a meno dell’unità. L’Europa è ormai «il continente più secolarizzato del mondo», ha affermato il cardinale Peter Erdo, presidente del Ccee. E anche in futuro «si vuole costruirla in maniera indipendente dal cristianesimo», ha rincarato monsignor Rino Fisichella, presidente del dicastero che Benedetto XVI ha istituito per promuovere proprio la nuova evangelizzazione. In tutto questo la Chiesa si trova a vivere «in una situazione simile a quella degli Atti degli Apostoli, cioè immersa in una cultura straniera», come si evince dalle risposte al questionario inviato a tutte le Conferenze episcopali, la cui sintesi è stata presentata ieri. Dunque non c’è un attimo da perdere. Occorre una nuova capacità missionaria, soprattutto nei confronti di quei battezzati che hanno perso la loro identità cristiana. Notava qualche giorno fa il cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, citando von Balthasar, che la «fede non va presupposta, ma sempre proposta». Quella fede vissuta, vera, incarnata che è stata al centro dei discorsi di Benedetto XVI nella sua Germania. E che in fondo costituisce il cuore della questione: ormai in questa Europa che si vergogna delle proprie radici culturali e religiose, che vuole fare a meno di Dio o tutt’al più lo confina nella sfera privata, non si può dare più niente per scontato. Occorre ridire chiaro e forte l’annuncio evangelico, allo stesso modo e con lo stesso coraggio dei primi discepoli. Anche se naturalmente con gli strumenti e i linguaggi adatti alla sensibilità odierna. Ecco perché il Ccee – con la sua esperienza quarantennale, con il suo essere luogo di scambio e di confronto tra le Chiese dell’Est e dell’Ovest, tra quanti hanno vissuto il dramma della persecuzione atea e quanti invece devono affrontare quella che il Papa chiama «la dittatura del relativismo» – è oggi uno degli strumenti più importanti per rilanciare l’opera della nuova evangelizzazione. Qui, grazie alla presenza dei massimi rappresentanti dei 33 episcopati continentali, risuonano infatti le diverse voci e le diverse sensibilità dell’Europa cattolica, che ormai respira pienamente a due polmoni. E da qui possono partire (come del resto sta avvenendo in questi giorni) idee e proposte utili per tutti, anche per chi non crede. Se, infatti, il Papa, i vescovi e la Chiesa tutta insistono tanto affinché il Vecchio Continente non smarrisca la propria identità, non è per desiderio di egemonia o peggio ancora perché nulla cambi rispetto al passato. Piuttosto è per la consapevolezza che senza il cristianesimo non sarà possibile costruire una società migliore. Perché, in fondo, anche per l’Europa cristiana si può ripetere il complimento: ha 2000 anni e in fatto di promozione del vero bene li dimostra eccome.
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